Musica
Ancora soli, naturalmente
In un cottage della quieta isola di Jersey, più Francia che Inghilterra, vive da quasi 40 anni una famiglia schiva – irlandese lui, norvegese lei – due ragazzi che si sono incontrati nel 1967, in una Londra elettrizzante in cui entrambi cercavano fortuna e trovavano solitudine. Aase Brekke racconta: “Gilbert aveva un look come quello dei ragazzini di strada, con il berretto e i pantaloni corti e le bretelle, ed aveva una cascata di capelli ricci per coprire il volto, tanto era timido. Suonava il piano in modo diverso dagli altrui: una mano per la melodia, l’altra per il ritmo, come fosse un tamburo. La gente lo trovava esotico. Sua mamma odiava la sua musica ed il suo look. Io lo trovavo dolcissimo ed indifeso, così come ero io”.
Gilbert è nato in Irlanda, e la sua famiglia si è spostata nei sobborghi londinesi negli anni 50, spinta dalla povertà. Ma suo padre è morto quasi subito, di polmonite, e la mamma ha dovuto lottare tutta la vita con un figlio che, già a 14 anni, aveva imparato a suonare il piano a orecchio e spariva per suonare nelle bettole, invece di guadagnare pane per la famiglia. Gilbert viene incoraggiato da tutti coloro che vengono a sentire le sue serate di cover: scrivi roba tua, scrivi ballate malinconiche come sei tu, fai sentire la tua voce. Tra coloro che lo incoraggiano anche musicisti che saranno famosi, come i fondatori dei Supertramp.
A 21 anni è a Londra con un contratto per tre singoli, che vanno malissimo, ma lui non demorde, e piano piano migliora. Incontra Paul McCartney e Randy Newman, ascolta i loro consigli, e scrive senza sosta, finché una sua canzone, “Nothing rhymed”, entra sorprendentemente in classifica in Olanda. È il 1970, Gilbert ha 24 anni, torna a casa da un concerto ad Amsterdam pieno di gioia – ma la mamma è riversa su una poltrona. Un infarto. Racconta Aase: “Era pieno di sensi di colpa, ma in quei giorni duri ha imparato la disciplina, ed ha scritto una delle sue più belle canzoni”. Un brano che parla di suicidio, di solitudine, di sconfitte: “Alone again” diventa l’inno di una generazione che sta uscendo dal boom economico piena di paure e debolezze, ed elegge Gilbert O’Sullivan come menestrello della timidezza.
In cinque anni Gilbert scrive una ventina di brani indimenticabili ed è in testa alle classifiche di tutto il mondo, poi la sua fortuna diminuisce. Ha un incidente in bicicletta, e questo lo porta a ripensare alla sua vita. Sposa Aase, i due comprano il cottage a Jersey – e praticamente smette di suonare. Ogni tanto registra qualcosa di nuovo dentro casa, da solo o con coloro che gli sono artisticamente più vicini, come Al Stewart e Chris de Burgh. Di concerti ne dà pochissimi, e quasi soltanto in Inghilterra. Ma in realtà fa il contadino e mette da parte i soldi per far studiare i suoi due figli, che ora sono grandi e lontani.
Ho pensato a lui ascoltando ancora quella canzone, che in un’estate di anni fa ascoltavo ogni giorno sul juke-box del bar del Lido dei Gigli, e ricordo delle sue interviste sulla miseria in cui sono cresciuti i ragazzi irlandesi e dei sobborghi londinesi subito dopo la guerra. Nella sua biografia nessuna ribellione, ma un grande amore per gli animali, per la vita alla luce del sole, per i bambini – ed il sogno di poter vivere il più lontano possibile dal fumo e il fango delle città industriali.
Oggi, a 75 anni, un giornalista gli chiede cosa pensi del mondo, e lui risponde: “Se per mondo intendi la comunità umana, non ne so nulla, non è un caso che siamo venuti a vivere qui, dove non viene nessuno. Ho sempre avuto forti pregiudizi sulla cattiveria delle moltitudini, che trasforma in violenza il senso di inadeguatezza che ciascuno di noi eredita dalla nascita. Se per mondo intendi l’universo, è sempre meraviglioso, anche se siamo sempre in meno ad accorgercene ed avere la fortuna di poterne godere”. Come avrebbe concluso anche Gaber: a patto di essere soli, naturalmente.
Devi fare login per commentare
Accedi