Musica

Anche la musica può essere musica dell’altro

1 Luglio 2024

In un’epoca come la nostra, nella quale sembra che i popoli, soprattutto quelli europei, vogliano rinchiudersi nel proprio giardino, guardare sé stessi e disinteressarsi degli altri, anche serate estive, come quelle offerte nei propri giardini sulla Via Flaminia dall’Accademia Filarmonica Romana, possono suscitare invece curiosità a vedere, conoscere capire come vivono gli altri. L’idea che la propria cultura sia l’unica o la più determinante cultura del mondo è un’idea priva di fondamento. Si festeggiano quest’anno in Italia i 700 anni dalla morte di Marco Polo. Da Venezia alla Cina il suo libro ci racconta la cultura dei popoli che vivono lungo la Via della Seta. Senza mai un momento in cui tali culture siano osservate con sufficienza o addirittura con disprezzo. Dov’è finita oggi questa libertà di sguardo, questa curiosità? L’etologo olandese Frans de Waal ha scritto un bellissimo saggio sull’intelligenza degli animali, compreso l’uomo. Il titolo è un programma, anzi quasi un manifesto: Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? Ecco: questo dovrebbe essere l’atteggiamento con cui una cultura si confronta con le altre culture. Come spiega l’etologo, non esiste un’intelligenza superiore a un’altra, ogni specie ha l’intelligenza che serve alla sua sopravvivenza. Lo stesso accade con le culture: ogni cultura è ciò che caratterizza quel popolo e non un altro. E si nutre, evolve nel confronto con le altre culture. Vedendo fallire la sua riforma Solone lasciò Atene per rifugiarsi in Egitto, a conoscere che cosa di nuovo gli egiziani potessero fargli conoscere. Apollo, uno degli dei fondamentali dell’Olimpo greco, non è un dio greco, anzi nemmeno indoeuropeo, è una divinità dei popoli che abitavano la Grecia prima della discesa dei greci dall’India. L’ultimo giorno di giugno la pianista russa Olga Domnina, ormai residente in Gran Bretagna, ha presentato al pubblico dell’Accademia Filarmonica Romana musiche di compositori azeri. L’interesse di questa musica sta nel fatto che vi si confrontano due culture musicali: la musica azera e quella della tradizione colta occidentale, introdotta nel paese con la fondazione del conservatorio di Baku, e con la supervisione di Šostakovič. Quando l’Azerbaijan faceva parte dell’Unione Sovietica. Si sono ascoltati così cinque preludi di Rahilia Hasanova, alternati a musiche di Ayaz Gambarli, Faradzh Karaev, Elmir Mirzoev, e le Cadenze di Ivan Fedele, anche lui frequentatore del centro di studi di musica contemporanea moscovita, in cui questi compositori si sono formati. L’interesse sta nel modo con cui una tradizione di ritmi, melodie, e timbri, soprattutto danzanti, entrano in contatto con l’elaborazione dotta della tradizione europea. Faradzh Karaev, per esempio, è di un’asciuttezza che fa pensare a Webern, ma la sua musica ha una violenza espressiva ignota al compositore austriaco. Elmir Mirzoev fa uso anche di nastro elettronico, l’elaborazione contrappuntistica tra nastro e scrittura pianista è formidabile. Non solo, ma qualcosa dell’improvvisazione della tradizione orale entra anche nel sistema di scrittura di questi compositori. L’uso del pianoforte è liberissimo, e non indietreggia davanti alla pratica avanguardistica di pizzicare le corde. Che qui però assume un tono evocativo di altri strumenti, per esempio il mughab della tradizione azera. Una sorta di liuto, e, di passaggio, non sarà inutile ricordare che il liuto in Europa ci arriva dagli arabi, perfino il nome, laud, è arabo. Così come lo strumento ad arco, il violino, e tutta la sua famiglia, ci viene addirittura dalla lontana Cina, dal pi-pa. La Sala Casella non era proprio affollata, ma il pubblico presente ha calorosamente applaudito la bravissima ed energica pianista.

Marco Sinopoli Quartet

La serata si concludeva nei bellissimi giardini con un concerto del Marco Sinopoli Quartet (Marco Sinopoli, chitarra e pianoforte; Simone Alessandrini, sassofono e flauto; Marco Siniscalco, basso elettrico; Valerio Vantaggio, batteria). Musica jazz, compositore lo stesso Marco Sinopoli. Anche qui abbiamo, ma ormai da più di un secolo, l’incontro di più culture. Anzi le origini africane di questa musica sembrano sepolte perfino nella memoria dei musicisti. E nella reinvenzione europea del jazz affiorano perfino reminiscenze colte, anzi stracolte. E non tanto per i precedenti storici di un Ravel o di un Milhaud, quanto proprio per la memoria musicale dello studente europeo di un conservatorio europeo, non parliamo poi se italiano. L’improvvisazione resta, e anzi nella serata se ne sarebbe desiderata di più, ma sembra irregimentata quasi da un programma di scrittura che rammenta le forme musicali colte. Intendiamoci, qualsiasi tipo d’improvvisazione ha una tradizione, un programma, un codice da osservare. Anche se non scritto. Ma qui gli echi di melodie, di armonie che ronzano nelle orecchie di tutti, circolano con una frequenza impressionante, soprattutto sotto le mani di Marco Sinopoli al pianoforte, ma – perché no? – anche dal sassofono di Simone Alessandrini. Azzardare nomi è audace, ma certi passaggi ricordavano il Rota della Strada, o perfino Beethoven. Stilemi, figure, si badi, non veri e propri temi o melodie definite. L’accordo tra i quattro è magnifico, anche se forse generalmente imposto da Marco Sinopoli. Ma diventa indiavolato quando il jazz si contamina con il rock, o sarebbe più giusto dire confluisce nel rock. Il pubblico, questo sì numerosissimo, ha applaudito, gridato, fischiato di godimento. Ma un’ulteriore riflessione va fatta. Se c’è qualcosa che più affascina del jazz, è la libera improvvisazione di ciascun musicista, la libertà che all’interno del gruppo è concessa ai singoli musicisti. Ora, proprio questa libertà è sembrata ieri sera ridotta, lo spazio concesso ad ogni musicista limitato. Paura di dilungarsi troppo? di sforare il tempo permesso? o controllo pervasivo di chi guida il gruppo? Sfogatevi, ragazzi! Sciogliete le briglie, la libertà conquistata non farà che accrescere l’entusiasmo del pubblico, coinvolgerlo, come se anch’essi, tutti gli individui del pubblico, partecipassero all’improvvisazione.

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