Geopolitica
Afrobeat: il riscatto del continente nero passa per la musica?
L’Afrobeat come movimento controcolonizzatore
Quando si parla di afrobeat si intende una corrente musicale africana che pesca dalle musiche tradizionali del continente nero quali jazz, funk, yoruba e altri stili e le unisce, mescolandole tra loro per creare un’innovativa forma di pop, gradevole ed orecchiabile. Il genere è nato in Africa Occidentale nel corso degli anni ’60 ed è diventato particolarmente popolare due decenni dopo, nel corso degli anni ’80. Il maggior esponente dell’afrobeat è stato il nigeriano Fela Kuti, il cosiddetto Black President,(1938 – 1997), celebre anche ben fuori dai confini africani.
Contenuto pubblicitario
Il genere riscuote successo e apprezzamenti un pò ovunque. L’afrobeat è, probabilmente, l’unica musica africana in grado di attecchire su una pista da ballo occidentale, poiché è perfetto per ballare. Si tratta di una musica completa, con i suoi appassionati militanti, con il suo groove coinvolgente e martellante. Diversamente dalla maggior parte delle correnti culturali (ma anche politiche, economiche e sociali), l’afrobeat non giunge in Africa, non è stato importato. Il genere nasce a quelle latitudini, in un continente dove la maggior parte della popolazione è giovane, dove c’è voglia di riscatto e dove le nuove tecnologie stanno portando infrastrutture, dunque opportunità. L’energia, il ritmo ed il processo creativo dell’afrobeat sono particolari ed originalissimi, la potenza del movimento è elevata e alcuni sociologi e antropologi, alcuni studiosi di Africa, ne hanno cominciato a parlare come del principale strumento controcolonizzatore attualmente a disposizione del continente nero.
The Black President, il pioniere
Fela Kuti è un mito del Novecento. Molti lo hanno paragonato a Bob Marley, qualcuno anche a Ernesto Che Guevara. Indiscutibile innovatore musicale, strenuo oppositore del colonialismo, baluardo della resistenza al furto dell’identità africana perpetuato dagli imperi (o presunti tali) europei e alfiere nemico della corruzione, piaga che ancora oggi insanguina l’Africa, la rockstar nigeriana è stata un personaggio complesso e contraddittorio. Esattamente come tutti gli altri geni della musica. Alla sua morte per AIDS, avvenuta nel 1997, Fela Kuti ha lasciato 27 vedove, le sue queens, come amava definirle, 27 mogli inconsolabili. La sua famiglia era piuttosto privilegiata: suo padre era un pastore anglicano, sua madre una delle prime, vere, leader femministe del continente. Essa fu la prima donna nigeriana ad entrare in possesso di una regolare patente di guida.
Il nome d’arte completo dell’artista è Fela Anikulapo Kuti, il cui secondo nome significa colui che dispone della propria morte e si riferisce all’intenzione del musicista di liberarsi del passato schiavista che coinvolge moltissimi suoi consanguinei e di essere l’unico, e solo, artefice del proprio destino. Leggiamo in questo secondo nome un parallelismo con un’altra leggenda della musica, Tupac Amaru Shakur, il più prominente rappresentante della cultura hip hop. Anch’egli si era attribuito un secondo nome che ricordasse una delle più importanti teste coronate africane, un baluardo di libertà e speranza. Questo è soltanto uno dei numerosi parallelismi tra afrobeat e doppia h, che vedremo in seguito.
Le risorse familiari consentirono al giovane Kuti di viaggiare a Londra e poi negli Stati Uniti. Da quella parte dell’Atlantico restò affascinato dal movimento per i diritti civili degli afroamericani e cominciò a simpatizzare con il Black Panthers’ Party. Rientrato in patria comincia a suonare nel 1970 con una band chiamata semplicemente Africa 70. In poco tempo il suo rivoluzionario afrobeat, musica che si deve in gran parte al suo genio, diventa uno dei generi più ascoltati nel continente. Fonda anche una comune, denominata la Repubblica di Kalakuta, la quale era simultaneamente studio di registrazione e casa per i (tanti) musicisti e attivisti che cominciavano a girare attorno all’artista. In breve, Fela Kuti divenne molto famoso, ecominciarono a definirlo The Black President data l’importanza che aveva assunto per le persone di colore. Celebre anche fuori dall’Africa, dal momento che cantava in inglese, la popolarità dell’artista lo rese inviso alle autorità governative.
Il politico Fela Kuti
Lo spessore politico di Fela Kuti è importante quanto quello musicale. Le sue idee politiche, si è accennato, sono figlie della filosofia del potere nero, popolarissima negli Stati Uniti durante la giovinezza di Fela Kuti. Convinto sostenitore del panafricanismo e socialista tutto d’un pezzo, la star nigeriana credeva nell’idea, alquanto utopica, di una repubblica africana libera, unita e democratica. Molte delle sue canzoni sono attacchi neppure troppo velati alla dittatura, particolarmente a quella dei militari in Nigeria negli anni ’70 e ’80.
A seguito della pubblicazione del suo disco Zombie, nel 1975, nel quale il musicista paragonava militari e politici a non morti, privi di ogni volontà e buoni solo a sparare a comando, lo Stato organizzò una sanguinosa rappresaglia. La Repubblica di Kalakuta fu assaltata, a mesi di distanza dall’uscita dell’album, da oltre 1000 militari; gli studi di registrazione furono incendiati e numerosi affiliati uccisi, tra questi anche la stessa madre del cantante, defenestrata, che morì alcuni giorni dopo l’attacco, in ospedale. Fela Kuti fu salvato appena in tempo da un pestaggio che si sarebbe sicuramente rivelato mortale.
Il musicista nigeriano era un forte sostenitore dei diritti umani. Non si scagliava solo contro il potere ma anche contro la gente comune, colpevole, a suo avviso, di piegarsi al volere delle dittature, soprattutto le classi più agiate come quella di cui lui faceva parte. La cultura africana in cui credeva ammetteva apertamente la poligamia ed era fortemente minacciata dall’imperialismo occidentale. L’atteggiamento dell’artista era piuttosto liberale in campo sessuale, eppure Fela Kuti era un figlio del suo tempo. Alcuni suoi testi, ad esempio quelli in cui definisce le donne bambinaie, sarebbero oggi accusati di sessismo.
L’afrobeat nell’immaginario collettivo
A una figura prominente e importante come Fela Kuti sono stati dedicati dischi, concerti, documentari e musical di Broadway. Il pubblico, ora come allora, quando l’artista era in vita, si entusiasma ad ascoltare il suo afrobeat, quelle vibrazioni raffinate, sofisticate eppure ritmate, che entrano nelle vene e si propagano nei muscoli, obbligandoti a ballare. La musica origina una danza scatenata, la quale mescola linearmente, senza alcuna sconnessione, l’etnico e il contemporaneo.
Di cosa parliamo quando parliamo di afrobeat? Di musica, di cultura, di ribellione, di riappropriazione del passato, o di linguaggio di protesta e ribellione? Probabilmente, di tutti questi elementi messi assieme. Ogni epoca ha avuto la sua corrente musicale (e di conseguenza culturale) che ha rotto con il passato, o si è almeno prefissata di farlo. Dapprima fu il rock, poi fu il punk, poi fu il rap, perché ora non può farlo questo genere? Il rock è diventato immortale, il punk invece non è più sulla cresta dell’onda da tempo, il rap è vivo e vegeto, anche se si evolve continuamente, in maniera spesso disorientante, che cosa resterà dell’afrobeat nell’immaginario collettivo? Ai posteri l’ardua sentenza, intanto ce lo godiamo e analizziamo che cosa possa significare oggi questa musica e il movimento cui ha dato origine.
Le origini dell’afrobeat sono fatte risalire da alcuni musicologi addirittura agli anni ’20. A detta loro, il genere sarebbe stato creato in Ghana. La corrente musicale, ad ogni modo, deve anche il suo stesso nome a Fela Kuti, che fu il primo ad utilizzare il termine afrobeat. Dagli anni ’70 in poi il genere è cambiato, si è modificato ed evoluto – non c’è nulla di atipico in questo, ogni stile musicale muta nel corso del tempo – e ora sta letteralmente invadendo i dancefloor e le classifiche di tutto il mondo.
Contenuto pubblicitario
Africa e afrobeat
La fusione di suoni suol, jazz e funk con la musica indigena africana, su tutte yoruba nigeriana e highlife ghanese, avviene grazie ad alcuni esperimenti già prima degli anni ’70 e dell’ascesa di Fela Kuti. Il merito del nigeriano, però, è quello di dare alla musica una carica e un sound assolutamente nuovi. Se a ciò aggiungiamo il messaggio rivoluzionario, di pace, uguaglianza e libertà di cui Fela ha intriso i suoi testi, abbiamo servito la ricetta di un successo mondiale.
Il fenomeno afrobeat è talmente globale che anche artisti di calibro stellare come Drake, Beyoncé, il noto DJ Diplo e la superstar delle superstar, Rihanna, hanno voluto esserne coinvolti e hanno finito, inevitabilmente, per rendere il genere mainstream. Il loro sound e il loro messaggio però sono profondamente diversi da quelli di Fela Kuti. Per tal motivo il cantante reggae nigeriano Burna Boy ha voluto fare un distinguo, differenziando tra afrobeat e afrobeats. A suo dire, l’afrobeat è la corrente guidata da Fela Kuti e seguita dai suoi contemporanei; afrobeats invece è una terminologia più ampia, la quale può racchiudere tutte le contaminazioni elettroniche, pop oppure hip hop prodotte in Africa a partire dai primi anni 2000. Queste contaminazioni hanno originato Afro – Pop, Afro – Reggae, Afro – House, Afro – Swing, Gqom e tutti gli altri stili musicali, anche molto diversificati, che caratterizzano oggi tutte le sfaccettature della musica sul continente e fuori da esso. C’è molto in una sola s. La definizione di Burna Boy, rilasciata in un bell’articolo di Maven della Kunama Crew, è esplicativa di quel che sta avvenendo negli studi di registrazione africani.
I 30 anni trascorsi tra gli albori del genere e le contaminazioni di questo secolo ha rappresentato un cammino di sviluppo e progresso del panorama afrobeat. I testi divengono, in questo periodo, sensibilmente più leggeri rispetto alle canzoni assolutamente politiche di Fela Kuti, eppure l’imprinting resta quello di arricchire uno scheletro jazz o soul con ritmi e sonorità indigene. Le produzioni sono ancora principalmente analogiche e restano lontane dagli ambienti prettamente elettronici che caratterizzano la musica contemporanea. Nell’afrobeat del tramonto dello scorso secolo si ascoltano fisarmoniche, chitarre elettriche, elementi rock’n’roll e le tradizionali percussioni yoruba. Tutto nello stesso pezzo. È importante enfatizzare questo aspetto, poiché siamo sempre abituati a parlare dell’Occidente che si impossessa, in maniera spesso impropria, di cultura e tradizione africana – e la musica gioca un ruolo fondamentale in esse – molto più raramente trattiamo di come anche i suoni del continente nero si siano amalgamati alle composizioni occidentali. Tutti ricordiamo l’operazione commerciale con la quale Shakira depredò la musica camerunense per produrre una hit da milioni di ascolti: Waka Waka. La canzone ci accompagnò per tutta l’estate 2010, quand’era colonna sonora del mondiale di calcio sudafricano, e anche in seguito. Molti meno, probabilmente, sono a conoscenza delle caratteristiche dell’afrobeat di Fela Kuti, almeno fino a quando non hanno cominciato a leggere questo articolo.
Prima di liberare lo spettro dell’appropriazione culturale che teniamo rinchiuso nell’armadio, però, dobbiamo tenere in considerazione come la musica non funzioni a compartimenti stagni. Le correnti musicali assomigliano molto a una lunga serie di vasi comunicanti, all’interno dei quali ogni liquido si scambia con quello del vaso che gli sta accanto. È impossibile parlare di musica senza parlare di contaminazione. Ci sono artisti crossover in grado di trasformare in hit pop anche le più famose sonate di Mozart e Beethoven, e non dobbiamo stupircene. Tramite l’assimilazione di alcuni elementi occidentali, tramite il miscuglio di elementi africani e dei paesi sviluppati, figlio di una globalizzazione imperante, potremmo davvero assistere a quel rinascimento africano tanto auspicato?
La voce della diaspora
Il continente africano, culla della civiltà, è anche il luogo dal quale proviene la musica. Se i grandi geni della classica sono tutti europei, infatti, le radici ancestrali della musica leggera derivano dalle tribù africane e dai loro rituali antichi. La narrazione in cerchio, cantata intorno al fuoco, l’orazione ritmata delle antiche tribù risale alla notte dei tempi ed è lì che sono nati i ritmi più ascoltati oggi alla radio. Abbiamo brevemente parlato di rap, il genere musicale che oggi va per la maggiore in Occidente e in Italia, con una programmazione radiofonica altissima – mai avuta nei suoi quasi 50 anni di vita – è figlio della cultura hip hop. Definirla è difficilissimo e ha poco senso farlo all’interno di un articolo che ne parla solo di riflesso, basti però sapere che anch’esso ha origine – guarda caso sempre a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 in cui Fela Kuti imperversava – come movimento di protesta, ribellione e controcolonialismo. Esattamente come l’afrobeat.
Anche l’hip hop è una cultura nera – della quale, certamente, sono entrati a far parte anche bianchi nel corso della sua evoluzione – la quale nasce nei ghetti, nelle zone disagiate, povere, screditate e malviste, ove i soprusi delle forze dell’ordine e il disinteresse della politica e della società davano agli abitanti l’idea di essere soggetti al volere di altri; come se fossero braccianti nelle piantagioni americane ottocentesche, o cittadini di una qualunque colonia africana, ad esempio la Nigeria britannica. Il rap rappresenta, così come l’afrobeat, il grido di aiuto di una popolazione abusata e soggiogata, la voce di protesta di migliaia, diciamo pure milioni, di persone stanche di essere maltrattate e considerate subumane, le quali sfogano tutta la loro frustrazione nell’arte.
La solidissima tradizione musicale africana, l’inventiva di una popolazione anagraficamente molto giovane e le possibilità aperte dalla globalizzazione (strumento della quale è stato anche l’imperialismo, prima che internet rendesse tutto il mondo davvero paese) hanno dato modo a numerosi artisti del continente nero di farsi ascoltare anche lontano da casa. Al giorno d’oggi, tale possibilità è ancor più alla portata di tutti, poiché le nuove tecnologie consentono a chiunque di farsi sentire, anche senza dover per forza passare per un produttore. Può riuscire la musica africana a rendere giustizia, almeno a qualche livello, alla popolazione del continente?
L’eredità di Fela Kuti e il messaggio dell’afrobeat al mondo di oggi
Fela Anikulapo Kuti non ha lasciato canzoni che, da sole, possano tramandare una memoria popolare della sua opera e della sua filosofia. Non esiste una sua No woman no cry, non esiste una sua Sex machine, non esiste neppure una sua Thriller. I suoi dischi, usciti tutti negli anni ’70 o nel decennio successivo, dato che negli anni ’90 non uscirono suoi nuovi album, sono tutt’altro che radiofonici. Ogni facciata di ogni sua opera contiene soltanto un pezzo, la cui durata è più quella di un’aria classica che di una canzone pop, variabile tra i venti e i trenta minuti. Il tempo era già eccessivo per la sua epoca, figuriamoci per quella odierna nella quale Spotify e i suoi concorrenti selezionano la musica da proporci tramite freddi algoritmi, intervallando le canzoni con fastidiose pubblicità, rendendo la nostra esperienza di ascolto l’ennesima occasione per venderci qualcosa piuttosto che un periodo di piacere sensoriale e mentale.
Lo stesso Kuti, poco prima di morire dissipato dall’AIDS, rispose all’annosa questione: perché canzoni così lunghe? Disse, a ragione, che nessuno si sarebbe mai sognato di fare una domanda simile a Bach o a Beethoven, mostri sacri ai quali probabilmente l’artista nigeriano si sentiva vicino. In alcune interviste, la star africana disse di equiparare Händel all’highlife ghaneano o al jazz americano. Fela Kuti era una sorta di guru, un capotribù reinventato secondo la sua personale visione panafricana. Come tutti i grandi, Kuti è amato da qualcuno e odiato da altri, perché in fin dei conti l’umanità è d’accordo solo su chi o cosa sia mediocre, poiché lo è per chiunque, mentre si divide su tutto il resto. Gli stregoni, il sesso, la medicina tradizionale, quell’AIDS di cui non si deve parlare perché è un problema solo dell’uomo bianco anche se poi se lo porterà via, Fela Kuti affermò una volta, nel 1978 a Berlino, durante una di quelle esperienze drenanti che erano i suoi concerti: “Tutto quello che sapete dell’Africa è sbagliato al 99%” La lezione coloniale, le conoscenze che gli europei avevano del continente erano una fabbricazione, una montatura del capitalismo occidentale che vuole soggiogare l’Africa con la complicità della silenziosa opinione pubblica. Questo Kuti non lo ha mai tollerato.
Il messaggio della musica di Kuti e di tutti coloro i quali lo hanno seguito è l’opposto. L’Africa è viva, è vegeta, è educata e possiede artisti straordinari. Il continente nero vuole ritagliarsi il suo spazio nel nostro mondo, riprendersi quello che le è stato tolto. Ha modo di farlo tramite la musica, tramite un rinascimento ritmico e sonoro che porta artisti nigeriani come Wizkid, Tiwa Savage, D’banj, Don Jazzy e Simi a riempire stadi anche fuori dal loro continente, sulle orme di Fela Kuti e con una musica che è figlia della sua, per quanto ben diversa.
L’utopia di Kalakuta continua nel movimento musicale dell’afrobeat, anche se oggi ha perso qualcosa dell’originale carica che la contraddistingueva. L’idea di avere un’arma contro il potere e i soprusi nel microfono non è più attuale come ai tempi di Fela Kuti ma l’Africa cerca ancora il riscatto e potrebbe aver trovato il modo di raggiungerlo tramite l’arte della musica e il mondo dello showbusiness.
Contenuto pubblicitario
Devi fare login per commentare
Login