Musica
A lezione da Giovanni Lindo Ferretti: la vittoria di un migrante reazionario
Giovanni Lindo Ferretti è da anni uno dei migliori troll in (non) circolazione. Nonostante i proclami, ogni tanto la sua voce riemerge e, dal suo “rifugio in campo aspro”, arriva un articolo, una dichiarazione, una smorfia che ha l’effetto di un macigno gettato in un laghetto ad alta quota. Spero che almeno lui si diverta ancora a scandalizzare il mondo con le sue esternazioni fuori dagli schemi, esattamente come ha sempre fatto fin dall’epoca in cui si credeva punk.
A volte, per nostra fortuna, l’esternazione si fa ancora disco. L’ultimo – da intendersi in ogni senso, a detta dell’autore – è uscito a metà luglio. Si intitola Bella gente d’Appennino, di madri e di famiglie ed è stato registrato dal vivo il 13 dicembre 2017, la sera di Santa Lucia, nella Chiesa di San Pietro a Reggio Emilia.
È un lavoro da ascoltare, per quanto possibile, con la mente sgombra. Giovanni Lindo Ferretti è aspro ed essenziale. Tra letture e canzoni, racconta della paura del buio, dell’iniziazione al canto, del rapporto con la madre, del trapasso della nonna, dei suoi Appennini e della vita di montagna. Rievoca il padre mai conosciuto che, la sera di Santa Lucia, puliva l’aia e preparava la tavola per accogliere i viandanti.
È il filo di un discorso mai interrotto su cui è tornato un’infinità di volte nelle peregrinazioni attraverso la “trasgressione del punk”, la “banalità accattivante del rock” e la “rassicurazione del neoconvertito”. Nelle sue intenzioni, questo spettacolo dovrebbe chiudere il cerchio. La mia impressione, invece, è che quel cerchio non sia mai stato aperto. I tentativi sperimentati in gioventù sono miseramente falliti e il Giovanni Lindo Ferretti di oggi, montanaro e “cattolico romano tendenza barbarica” come ama definirsi, ne sembra quasi sollevato. “È andata male”, scandisce nel disco Ferretti. “È andata male!”.
Il suo fervore religioso è ancestrale e puro. Più che un rifugio è una rivendicazione di appartenenza. Bella gente d’Appennino, di madri e di famiglie è il suo personalissimo amarcord. Non siamo lontani da quel mondo, un tempo giovane e forte, che cantava da ragazzo. Solo che oggi siamo tutti più vecchi e finalmente possiamo chiamare le cose con il loro vero nome. Per Giovanni Lindo Ferretti la modernità calpesta il particolare e lo distrugge. Tecnologia e libertà ci hanno sradicati, riducendoci a produttori, consumatori e utenti che scambiano i capricci per diritti. L’unica forma di redenzione, invece, è un impossibile ritorno al “corpo antico della civiltà della cristianità d’occidente”. Un ritorno poetico che prova a farsi politico, ma solo per il gusto della provocazione. Nulla cambia, ammette Ferretti. Nemmeno la lenta erosione di quel mondo antico che fu. Tenerlo in vita attraverso il racconto è un ultimo accorato atto di fede.
Eppure non ci possiamo fermare a questo. C’è qualcosa che va oltre e sarebbe un peccato non coglierlo.
Noi “ridotti a dimora urbana”, vinti dalla modernità, possiamo alzare il sopracciglio di fronte a chi rievoca la propria infanzia confondendola ad arte con quella della cristianità. Possiamo accogliere con sufficienza chi racconta l’attesa della morte con il pensiero di essere “sereno, confessato, comunicato e in pace”. Possiamo liquidare tutto come l’ultima provocazione di un reazionario di talento.
Ma ci sbaglieremmo.
Giovanni Lindo Ferretti coglie molte delle nostre contraddizioni e, con “cospicue riserve di buonumore”, vi affonda la lama.
Ci ricorda, ad esempio, che questo nostro vivere costantemente proiettati al presente ci sta spogliando di quel che resta del nostro futuro. È più conservatore chi guarda cocciuto al passato e, in un’utopia inversa, lo vorrebbe poter restaurare o chi è così appiattito sul presente da non saper più immaginare nulla che vada oltre l’istante?
Ci ricorda che non ritrovarci nella ricerca di senso dell’uomo di fede non ci esime dalla sfida di proporne una davvero nostra. O una e basta. Sarebbe già qualcosa, no?
Ci ricorda che la ricognizione sul nostro passato, quando è sincera, è sempre un’operazione per stomaci forti. Le radici non sono materia facile da maneggiare. Riuscire a raccontarle con riconoscenza, recuperandone ricchezza e contraddizioni, senza sentire il bisogno di vergognarsene e senza scendere a compromessi ridicoli, è un lusso che solo le persone veramente libere possono permettersi. Davvero nessuno di noi sente di avere qualcosa da imparare? Nemmeno a sinistra?
Bella gente d’Appennino, di madri e di famiglie può sembrare uno sfregio alle nostre certezze più laiche. Eppure non le incrina perché, nel contaminarle, le rafforza. Ci ricorda qual è, in fin dei conti, il loro segreto, la ragione vera per cui continuiamo ad amarle e sentirle nostre. Alla fine, di queste letture e canzoni, oltre alla poesia, alla passione e all’integrità più totale, resta soprattutto l’invito al movimento. Non importa se la direzione è diversa. Non fermarsi è un obiettivo comune.
La lezione più grande di questo concerto è tutta nel metodo. Essere autentici, anche a costo di andare contro tutti, compreso il proprio tempo. Cercare il dialogo, anche se passa dal dire cose sgradevoli e tristi. Non allontanarsi dall’altro. Non rifiutarlo mai. Tendetegli la parola, anche quando scava uno iato apparente. Se sa mostrare umanità, la parola ne porta sempre un po’ da qualche parte.
Niente più dell’arte emoziona e sconvolge e, soprattutto, insegna ad amare la diversità. Anche quella di Giovanni Lindo Ferretti.
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