Musica
50 anni di Hip Hop, da musica di protesta a fenomeno globale
Difficilmente le correnti culturali hanno una data di nascita. L’hip hop però ne ha una, riconosciuta dalla maggior parte della sua comunità: il 13 agosto. Seppure non tutti gli storici della musica concordino sulla data esatta, non si discute sul fatto che l’hip hop sia nato nell’estate del 1973, a New York, nel quartiere del Bronx. Abbiamo anche un indirizzo, il numero 1520 di Sedgwick Avenue, dove risiedevano al tempo Cindy Campbell e suo fratello Clive, grande appassionato di musica e amante del divertimento come ogni adolescente, il quale era soprannominato Hercules dagli amici per la stazza e le performance sempre dominanti su un campo da basket.
Quel che avvenne tra quelle mura il 13 agosto 1973, è entrato a far parte della leggenda, perché da una festa in casa senza troppe pretese prese il via un movimento che si è poi diffuso a macchia d’olio fino ad arrivare, 50 anni dopo, a esprimere il genere musicale più ascoltato al mondo.
Agli albori del movimento
Clive Campbell era abituato ad avere gente in casa. Essendo uno dei pochi ragazzi di colore che era riuscito ad acquistare il vinile di James Brown contenente la sua super-hit, Sex Machine, il liceale invitava pressoché quotidianamente amici e compagni di scuola in camera sua per ascoltarlo. Contestualmente a ciò, era solito organizzare feste nell’androne del palazzo, che generalmente gli riuscivano molto bene. Nel mese di agosto, sua sorella Cindy festeggiava il compleanno e, come tutte le adolescenti, pensava all’inizio dell’anno scolastico, e al fatto che le servivano vestiti nuovi da indossare per la scuola. Conoscendo il talento del fratello, gli chiese di occuparsi della selezione musicale al suo party, un’occasione alla quale sarebbe stato invitato l’intero quartiere, per racimolare quanto più contante possibile.
I fratelli fecero le cose in grande, stampando volantini da appendere in giro e passando voce tra chiunque conoscessero, finché giunse la serata del 13 agosto. L’afflusso fu enorme. Cindy era entusiasta, data l’alta partecipazione poteva andare a fare shopping nei negozi dei bianchi, come sognava, e distinguersi dalle compagne di classe. C’era però il problema di intrattenere a dovere i numerosi intervenuti. A quello avrebbe pensato Clive, la cui collezione di dischi era piuttosto nota. Il giovane aveva nel frattempo preso a farsi chiamare DJ Kool Herc, canzonando il soprannome che gli avevano affibbiato. Il vero protagonista di queste festicciole era lui, tanto che sui flyer pubblicitari l’evento era stato annunciato come A DJ Kool Herc party, una festa animata da DJ Kool Herc, che attirava molto più degli alcolici economici acquistati da Cindy al negozietto sotto casa o dei dolci preparati dalla madre dei due fratelli. I ragazzi pagavano 50 centesimi e le ragazze 25 per entrare, un prezzo non certo esoso ma che quella sera si rivelò un vero e proprio affare per gli intervenuti, i quali furono testimoni della storia nel momento in cui cambiò tutto.
A un certo punto, mentre Clive stava lanciando un pezzo segnato dalle percussioni, il suo amico Coke La Rock prese in mano il microfono che il dj teneva accanto a sé per richiamare l’attenzione e iniziò a urlare i nomi di alcuni amici che stavano partecipando alla festa; per ognuno di loro aggiunse qualche presa in giro o complimento sul look, su come era vestito, o sulle persone con cui stava parlando. Tra le risate dei conoscenti, era nato il rap.
La tecnica di DJ Kool Herc
Quello che rendeva unica l’esperienza di ascolto di un set di Kool Herc era la sua freschezza. Clive Campbell proponeva delle playlist, secondo il termine che useremmo oggi, assolutamente eclettiche: spaziava dalle tendenze dell’epoca a canzoni molto meno note, ma che lui apprezzava parecchio (tra la fine del 1973 e il 1974 si era innamorato di It’s just begun, canzone di Jimmy Castor, che deve buona parte della sua popolarità proprio al dj), senza dimenticare di proporre l’adorato James Brown, che in quegli anni faceva scintille. Contrariamente da quanto si potrebbe pensare, però, non riproduceva i singoli, bensì sceglieva delle gemme nascosta tra i pezzi registrati, magari live, e li metteva in loop dando modo agli accorsi alla festa di scatenarsi per molti minuti sulla stessa manciata di secondi di una canzone.
Kool Herc non era assolutamente un dj hip hop che metteva soltanto rap; non di rado nei suoi set si poteva ascoltare pop o rock progressivo, secondo i gusti del tempo.
Già nel 1974, Clive aveva abbandonato l’androne del suo palazzo per dare feste all’interno di Cedar Park – dove alimentava il suo impianto collegandosi ai lampioni dell’illuminazione pubblica – e suonare all’interno dei locali del Bronx che avevano iniziato ad apprezzarlo e ingaggiarlo. In quell’anno, il dj prese una delle decisioni creative più importanti del secolo scorso. Il cosiddetto breakbeat fu un vero e proprio colpo di genio: mettendo in rotazione due copie dello stesso brano, Kool Herc estendeva la parte più orecchiabile riproducendola in maniera consecutiva su entrambi i vinili, spostando all’indietro la puntina del primo mentre era in riproduzione il secondo. Di fatto, aveva dato i natali a una delle tecniche più ampiamente utilizzate ancora oggi dai dj di tutto il mondo.
Come gli è venuta questa idea? Ai microfoni del Guardian, Clive Campbell è stato candido:
“Noia? Dico sul serio! Me ne stavo seduto lì a osservare e ho notato che le persone attendevano un punto preciso della registrazione. Allora ho pensato di proporlo a lungo. E una volta cominciato, non potevo certo tornare indietro. Tutti venivano alle mie feste proprio per quella porzione del mio set.”
L’hip hop come cultura
La palla di neve lanciata da Kool Herc divenne presto una valanga. La seconda tappa della storia dell’hip hop fu la presa di coscienza che si trattasse di un movimento ampio e destinato a durare, non di una moda temporanea. Fab 5 Freddy, promoter musicale conquistato immediatamente dai virtuosismi del dj e di quanti lo imitavano, codificò per primo le quattro discipline che, ancora oggi, costituiscono le fondamenta della cultura hip hop: il DJing e l’MCing, la breakdance e i graffiti. Se i primi tre concetti sono profondamente legati alla musica, il quarto lo è meno, in quanto si tratta di una espressione artistica pittorica ma che viene comunemente inglobata con le altre riunite sotto il termine ombrello della doppia h. L’MCing è difficile da tradurre in italiano ma l’acronimo indica i cosiddetti maestri di cerimonia, ovvero le persone come Coke La Rock capaci di improvvisare con le propria voce su una base musicale. Per semplificare, sono gli antenati dei rapper come li conosciamo oggi.
La definizione Di F5F voleva provare che l’hip hop sarebbe durato decenni, cosa a cui i grandi produttori musicali non credevano molto all’epoca, dando sfogo di una lungimiranza tutt’altro che invidiabile visto il punto a cui siamo oggi. Negli anni ’70 erano i dj a tirare la volata del genere; accanto a Kool Herc muovevano i primi passi altre due colonne del movimento: Grandmaster Flash e Afrika Baambaataa. Nonostante i due siano arrivati dopo Clive Campbell, entrambi sono oggi ben più famosi di lui. Il dj infatti non ha mai inseguito fama o celebrità e non è mai diventato una star. Più che un tornaconto personale, Kool Herc ha sempre inseguito il bene comune: le sue battaglie più celebri sono quelle per certificare il palazzo della sua famiglia come luogo di nascita dell’hip hop e per promuovere il diritto alla salute universale.
La Golden Age
Sul finire degli anni ’70, la metaforica valanga stava per giungere a valle. Nel 1978 fu coniato il termine rap music e l’industria musicale cominciò a definire così lo stile degli mc. Convenzionalmente, si parla di questo momento quando si vuole stabilire la data nella quale il focus della comunità hip hop si spostò dai dj ai cantanti.
Nel 1983, in un periodo nel quale il rapper più noto era Ice T, non certo un peso massimo del movimento come gli artisti che lo avrebbero seguito, la cultura hip hop era già molto diffusa. Quando Michael Jackson si esibì nel suo primo moonwalk, alla celebrazione per i 25 anni della Motown Records a Detroit, numersi b-boy e b-girls (nomi con cui si definiscono i ballerini di breakdance) riconobbero una delle loro mosse.
L’anno successivo, il rap si prese definitivamente il suo posto sull’Olimpo della musica e la cultura hip hop iniziò a permeare tutti gli ambiti dello showbusiness. Succede tutto molto rapidamente: il Fresh Fest Tour dell’estate ’84, una rassegna che vide le performance di numerosi artisti della scena statunitense, a partire dai Run D.M.C., incassò 3 milioni e mezzo di dollari; nel 1985, le Salt’n’Pepa – un gruppo tutto al femminile – dimostrarono che il rap non era soltanto roba da maschi, nonostante il machismo dei suoi testi; nel 1986 i Beastie Boys comunicarono al mondo che anche i bianchi sapevano rappare o, meglio, lo lasciarono fare al loro album, Licensed to ill, un lavoro che venderà più di 10 milioni e mezzo di copie e darà origine alla sottocorrente del rap metal; nel 1987 i Public Enemy si presero il proscenio grazie all’uscita di Yo! Bum Rush The Show, subito ristampato a causa del pressoché immediato esaurimento delle scorte. Dietro entrambi i dischi c’è la produzione di Rick Rubin, demiurgo della Golden Age dell’hip hop, l’epoca d’oro a cavallo tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90 che rappresentò un periodo di estrema ispirazione, nel quale uscirono tutte le pietre miliari del genere.
Il vero e proprio inizio della Golden Age viene fatto risalire da molti al 1988, anno dell’uscita di Straight Outta Compton, primo lavoro di quello che sarebbe presto diventato un supergruppo del rap, gli NWA (Niggaz with attitude) di Los Angeles, tutti originari del ghetto nero e povero di Compton. Il disco fu un successo clamoroso e segnò la nascita di uno dei sottogeneri più amati del rap, il gangsta rap, celebre per i testi ricchi di violenza e figli del suprematismo nero che già predicava Chuck D con i suoi Public Enemy e che ora Eazy – E e Ice Cube, prodotti dalle sapienti mani di Dr. Dre, avevano tradotto in note sincopate destinate alle minoranze di colore che sognavano di ritagliarsi un posto migliore nella società americana.
Il gruppo si scioglierà dopo la prematura scomparsa di Eazy – E, causata dall’hiv, consentendo a Cube di dedicarsi al cinema e all’imprenditoria e a Dre di diventare il super-produttore capace di plasmare la carriera di Eminem, l’artista che ha maggiormente contribuito alla diffusione del rap da questa parte dell’Atlantico.
Volendo decretare – in maniera del tutto arbitraria e non necessariamente precisa – la fine della Golden Age, potremmo segnare sul calendario della doppia h la data del 1996. Si tratta di un anno di cambiamenti epocali all’interno della cultura. Se l’album The Score dei Fugees debuttò direttamente alla numero 1 delle classifiche americane, dimostrando che il rap dei primi anni ’90 era ancora sulla cresta dell’onda, il fatale agguato a Tupac Shakur (che anticiperà quello a Notorious B.I.G. del 1997) spense la stella più brillante nel firmamento rap e avviò la fase successiva di questo genere musicale, dominata dal talento di voci come quelle di NAS, Missy Elliott, LL Cool J e Queen Latifah.
Il fatto che due di questi quattro astri oggi facciano soltanto cinema la dice lunga sui cambiamenti vissuti dall’hip hop in tempi recentissimi e su quanto il livello si sia abbassato, al fine di andare incontro a becere logiche commerciali.
L’hip hop nel nuovo millennio: un movimento in declino?
Tra i traghettatori del rap, e di conseguenza dell’hip hop, nel nuovo millennio dobbiamo annoverare anche Jay-z, prodotto da Rubin prima di diventare lui stesso super-produttore e trasformare il talento eccelso della moglie Beyoncé in una macchina da incassi probabilmente senza pari nel mondo della musica (o al limite equiparabile a quella della sua altra creatura, Rihanna) e la prima vera superstar al femminile di questo genere, Lauryn Hill, che dopo aver salutato i Fugees si guadagnò 11 nomination ai Grammy del 1998 portando a casa cinque premi con il suo capolavoro, The miseducation of Lauryn Hill, disco così potente da aver assorbito, a quanto sembra, l’intera vena creativa della sua interprete.
Se oggi non è più così raro che una rapper donna riceva tutte queste nomination, bisogna ricordare che nel ’98 Cardi B era ancora una bimba, Rihanna giocava sulle spiagge delle Barbados, Nicki Minaj non aveva ancora iniziato a fare musica e Beyoncé guidava una girl band composta da lei e altre tre ragazze (perché inizialmente erano in 4) alle quali il destino avrebbe concesso la notorietà planetaria prima di farle precipitare nell’oblio, avendolo loro stesse chiamato in causa scegliendo di chiamarsi Destiny’s Child. I tempi non erano ancora maturi e l’exploit di Hill fu veramente storico.
Pian piano, le produzioni rap cominciarono sempre più a essere influenzate da sonorità dance e house. Negli ultimi 15 anni, l’elettronica si è fatta sempre più preponderante e quando a essa è stato affiancato uno strumento sdoganato da Cher per migliorare le sonorità della sua hit, Believe, noto con il nome di autotune – perché capace di intonare in maniera automatica qualsiasi voce, in cambio di una sua udibile alterazione – è di fatto nata la trap. Questa corrente, che divide molto gli ascoltatori, è oggi la principale propulsione dell’intera cultura della doppia h.
Come tutte le novità, il sottogenere trap non è visto di buon occhio dai puristi del rap. Eppure, si tratta di una sua naturale evoluzione, di un modo per attualizzare questa musica e renderla orecchiabile a una generazione che cerca ritmi da utilizzare come colonna sonora dei suoi video su TikTok e delle sue storie su Instagram, non rivendicazioni sociali e inni di protesta. Se inizialmente la musica serviva a radunare le masse dimenticate e inascoltate sotto un’unica bandiera, quella della rivalsa sociale, oggi ne fanno uso persone che non hanno alcun tipo di rivolta da alimentare e sono lontanissime dalle situazioni descritte nei testi. L’ascoltatore è cambiato perché anche il sottobosco sociale lo ha fatto, e ciò non si deve certo alla cultura hip hop.
Foto di Jorge Jimenez da Pixabay.
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