Costume

33 giri

10 Dicembre 2021

Gli Abbey Road’s Studios si trovano a qualche isolato da Regent’s Park e possono essere annoverati a pieno titolo, io credo, tra i luoghi che più hanno contribuito alla configurazione dell’immaginario collettivo della seconda metà del novecento. Furono inaugurati quando Giorgio V regnava ancora sull’Impero nell’unica maniera che ci si sarebbe potuti aspettare: con la registrazione di Land of Hope And Glory di Elgar. Ma non è da lì, naturalmente, che deriva la loro leggenda. Gli Abbey Road’s Studios sono leggendari per un’altra ragione: i Beatles e la celebre copertina dell’album omonimo che li raffigura proprio nell’atto di attraversare le strisce pedonali che si trovano ancora oggi a qualche metro dal punto di confluenza con Grove End Road. Ma la ragione per cui, parlando di ciò che è successo ultimamente in questo pianeta è difficile fare a meno di riferirsi a loro è, pur essendo ugualmente legata al gruppo di Liverpool, un’altra, meno appariscente ma storicamente decisiva. Il trentatrè giri, questo cerchio di vinile di 30 cm. di diametro, custodito in una busta quadrata in cartoncino di 30,5 cm di lato, la cui salma è oggi umiliata al punto da essere ridotta a mummia “di culto vintage”, ebbe vita breve. Dall’inizio degli anni cinquanta alla fine degli ottanta del novecento. Meno di quarant’anni. Se però ne consideriamo l’esistenza di manufatto che, nella sua interezza, si offra come testimonianza d’arte, quella vita si riduce ulteriormente a poco più di dieci anni – certo assai meno di venti. Nessuno è in grado di individuare data e luogo della sua fine che, come succede non di rado in questi casi, si è protratta nel tempo e nello spazio per parecchio tempo – sicché in ultimo, pur essendo ancora fisicamente in circolazione, era di fatto già cadavere. Possiamo invece indicare con grande precisione luogo e data della nascita, che avvenne a Londra, negli studi di Abbey Road e coincise con la registrazione di Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band dei Beatles, nell’estate del 1967. Ovviamente già prima erano stati prodotti 33 giri di formidabile levatura, sia nell’ambito della “pop music” che in quello del jazz – per la “musica classica” il rapporto con l’incisione discografica è sempre rimasto, invece, del tutto superficiale, in pratica irrilevante, a meno delle sperimentazioni d’avanguardia e limitatamente al settore della musica concreta. Quello che però accade con Sgt. Pepper è letteralmente inaudito. Qui, per la prima volta, non abbiamo a che fare con una “raccolta” di registrazioni (come ancora accadeva in splendidi lavori come “Revolver” degli stessi Beatles o “Pet Sounds” dei Beach Boys, appena l’anno precedente) né, come accade più spesso nel jazz, con l’incisione di una straordinaria performance esecutiva avvenuta, quasi per caso, in studio piuttosto che durante un’esibizione dal vivo e solo per questo “fissata”. Sgt. Pepper è un’altra cosa: è un insieme concepito e costruito in funzione della produzione su 33 giri, con tempi e modalità dettate da questa intenzionalità estetica e in cui la composizione musicale si trasmette senza soluzione di continuità alla sua elaborazione in studio con l’apporto fondamentale delle tecniche più moderne – per i tempi – di registrazione. Nessuno fino ad allora aveva mai fatto una cosa del genere, con quella rivoluzionaria consapevolezza. Per la prima volta un vinile di quaranta minuti era strutturato come opera d’arte collettiva e non come semplice fissazione della “creazione” di compositori o esecutori in stato di grazia. Non è possibile immaginare Sgt. Pepper fuori da uno studio di registrazione in cui tecnici del suono, arrangiatori, compositori ed esecutori lavorano insieme, a pari titolo di dignità. Qui la sovraregistrazione di una risata, un applauso o un cane che abbaia è decisiva quanto la melodia e l’armonia della base musicale. Ogni “canzone” trova la sua dimensione in una totalità che la trascende e, per quanto rimanga “canzone” si dona solo nel movimento del suo dileguarsi. L’insieme vi è, in modo addirittura emblematico, molto più che la somma delle parti. E quell’insieme è un prodotto mirato esclusivamente all’ascolto su vinile. Una esecuzione “dal vivo” di Sgt. Pepper, così com’è, è perciò quasi impensabile. Né mi pare un caso che la sua produzione abbia fatto seguito proprio alla decisione dei Beatles di non esibirsi più in concerto. Negli anni successivi all’uscita di Sgt. Pepper il contenitore del vinile, la copertina, acquisì una rilevanza che è difficile sopravvalutare e di cui, oggi, è quasi impossibile rendersi ragione, soprattutto per chi è cresciuto tenendo tra le mani solo dei cd. Ma se l’importanza della copertina nella economia estetica del 33 giri divenne decisiva nel corso degli anni che seguirono, furono proprio i Beatles, con Sgt. Pepper, a stabilirlo una volta per tutte. E con l’album bianco del 1969 fecero di più: definirono gli estremi canonici tra cui può oscillare la busta di un vinile. Da una parte c’è tutto. Dall’altra non c’è niente. La forza inclusiva di Sgt.Pepper, dunque, si trasmette alla copertina che diventa la sintesi visiva perfetta del suo contenuto. Non mi sogno neppure di tirar fuori una parola spaventosa come Gesamtkunstwerk; non sono affetto da tedescaggine e sui Wagneriani tendo a pensarla come Nietzsche (“Tutti cornuti”) però…chi ancora oggi si fa un merito della sua assoluta ignoranza intorno a quella che magari definisce ancora, con l’aria di chi la sa lunga, “musica di consumo” farei notare, anche se so che sarebbe del tutto inutile, che il mezzo secolo trascorso dalla sua registrazione non solo non gli ha tolto nulla ma gli ha conferito la patina di un classico. Non ho, ovviamente, difficoltà a convenire sul fatto che questo vale solo per una percentuale minima della “musica di consumo” composta negli ultimi cinquant’anni ma, d’altra parte – proviamo a dirlo tra noi – di quanta musica “seria” composta nello stesso lasso di tempo si può dire lo stesso?

p.s.

Il testo di riferimento per chiunque voglia sapere tutto quello che c’è da sapere intorno alla registrazione di Sgt. Pepper – a conferma di quanto ho detto – non l’ha scritto nessuno dei fab four ma il quinto assente: sir George Martin a cui quest’album straordinario deve almeno quanto deve agli altri quattro. In italiano è tradotto con il titolo “L’estate di Sgt. Pepper” (di gran lunga preferibile però il titolo inglese: The Making of Sgt. Pepper) e, cosa rara e preziosa, è scritto benissimo.

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