Musica
25 anni di Achtung Baby, il più grande album degli U2
Probabilmente scrivere di musica rock nel 1991 deve essere stato estremamente difficoltoso. Non tanto perché si trattava di iniziare l’esplorazione di un nuovo decennio, quanto perché, si partiva, senza mappa, per arrivare chissà dove lasciandosi alle spalle decenni di incontrollato desiderio di rottura verso un establishment comune di manierismo culturale ridondante e stantio. Nessun problema, le parole sono fin troppe, nel 1991 si tratta “solo” di varcare lo specchio rotto dagli anni ’80 e proseguire verso l’inesplorato, l’inatteso, l’impossibile.
Gli U2 erano gli U2 da ormai parecchi anni. Se avessero fermato la loro carriera a Rattle And Hum, se Bono si fosse dedicato alla sola filantropia (o alle balene), Larry alla recitazione, e gli altri ad insegnare musica e a produrla, sarebbero rimasti grandi lo stesso.
La celebrazione – fin troppo retorica – del tour con cui hanno chiuso gli anni ’80 è stato probabilmente il momento più alto della loro carriera, fino a quel punto.
Molto spesso mi trovo a parlare di Achtung Baby con chi mi chiede quale sia il mio album preferito degli U2. Io non ho alcun dubbio, sono 25 anni che non cambio idea e considerando che ne ho 34, direi che ho vissuto abbastanza tratti della mia vita con questa convinzione: 1991, Berlino, U2, una condizione micidiale.
Andiamo con ordine, il 1991 era l’anno in cui la Germania iniziava velocemente a ricostruirsi. Berlino, era una città pronta a diventare il centro dell’Europa, era una capitale a cui si concedevano speranze, dopo l’abbattimento del muro e la claustrofobia elettronica di David Bowie, Kraftwerk, Einstürzende Neubauten. Gli U2 si spostarono qui per mettere giù le idee di quello che sarebbe stato il loro sesto album in studio. Vagavano nell’incertezza, che non era solo di carattere musicale, ma persino religioso e personale. Bono e The Edge avevano creato un’enorme distanza con il resto della band, cui imputavano, in sostanza, la scarsa voglia di approfondire un territorio distopico di cui solo loro sembravano essere padroni.
Con Daniel Lanois e Brian Eno, ormai membri del gruppo, la pianificazione del nuovo album si dimostrò subito abbastanza complessa. La ritrosia di Larry nell’utilizzare una batteria che non fosse fatta di pelli e bacchette di legno fu uno scoglio difficilissimo da superare, ma la speranza di riuscire a portare a casa una manciata di canzoni mai ascoltate prima iniziava a palesarsi quando il rumore degli Hansa Studios diventava sempre più coerente con le idee di raccontare, elettronicamente, la nuova vita di una band che poteva tranquillamente non esistere più per essere comunque ricordata negli annali per decine di anni.
La produzione del disco fu decisamente più stimolante della sua scrittura. Quando anche Adam e Larry entrarono nella parte, una band sull’orlo dello scioglimento divenne nuovamente la più importante del mondo occidentale e, considerando il crollo del Muro, del mondo intero.
Achtung Baby ha una coerenza musicale che non ha eguali negli ultimi 25 anni, ogni canzone, presa singolarmente è un mondo che, riunito, crea una galassia che pulsa di vita attorno all’estensione vocale di Bono, splende sugli accordi temperati e vaporosi di The Edge e si muove sui ritmi di Adam e Larry che diventano un “motore immobile” per l’intero futuro della band.
Non ho mai trovato in giro, discussioni che arrivassero a descrivere questo disco come un concept album. Forse lo diventa considerato assieme al tour che lo supporta – di cui si potrebbero scrivere interi romanzi – ma in un certo senso lo è eccome. La coerenza e la coesione dei vari brani è evidente, come se i quattro di Dublino fossero riusciti a creare una cosmogonia sui generis, elettronica e dall’approccio decisamente alternativo, perlomeno rispetto al decennio precedente.
So Cruel, ad esempio, è l’altra faccia di One, il lato b del disco è la parte in ombra del lato a, il lavoro intero è l’altra faccia degli U2 degli anni precedenti. E in tutto questo costante divenire, la band sembra riuscire a trovare un proprio equilibrio, che arriverà a fine corsa qualche anno più tardi con l’uscita di Pop, l’ultimo lavoro creativo ad aver reso davvero grande il gruppo di Dublino.
La canzone più rappresentativa dell’album, al di là della universale One, è sicuramente Acrobat. Essa rappresenta un continente in bilico, racconta di quello, di Berlino, delle speranze di una nuova generazione (“Cosa faremo ora che tutto è già stato detto? Nessuna idea nuova qui, e tutti i libri sono stati letti”), dell’inizio di una nuova era, è densa di entusiasmo ma anche di coscienza (“nei sogni incominciano le responsabilità”), di rivalsa e di lotta verso un nemico ancora sconosciuto (“E posso amare, lo so che la corrente sta cambiando…non lasciare che i bastardi ti schiaccino”).
In sostanza, ascoltare Achtung Baby a 25 anni dalla sua uscita, non fa che confermare l’idea che gli U2 abbiano fatto uscire, nemmeno troppo silenziosamente, il più grande album della loro carriera nel periodo forse più difficile della loro esistenza (fatta eccezione per gli screzi iniziali). L’album è perfetto sotto ogni punto di vista, il design, la fotografia (con Anton Corbjin risulta fin troppo facile), la produzione, la scrittura, e poi il tour, quello Zoo Tv che ha anticipato di 30 anni i concerti che ancora si devono fare sui palchi di un mondo totalmente diverso. La sensazione più particolare che si prova è che lo si sente ancora parlare di muri che si abbattono, di amore universale, di sensualità, di sperimentazione, di caos controllato che genera dentro l’ascoltatore un senso di pace. Le note di Love Is Blindness sembrano portare il disco verso l’infinito. L’unica collocazione temporale in cui si merita di stare.
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