Musica
10 dischi per capire la musica africana contemporanea
Non è semplice parlare di musica africana, ma è da tempo che volevo dedicare un articolo ad alcuni dei migliori ascolti che io abbia fatto negli anni passati, così mi ritrovo oggi, che siamo nel nuovo decennio, a tirare le somme facendo tornare alla mente quelli che sono stati i dischi più importanti degli anni ’10, gli artisti più creativi e le idee più originali. Partiamo dicendo che la musica africana, come asserisce Wikipedia, è estremamente eterogenea, in quanto riflette la varietà etnica, culturale e linguistica del continente. Si dice “musica africana” quando in realtà sarebbe più corretto esprimersi riferendosi al ritmo, agli strumenti, alle scale e alla polifonia delle varie esperienze. Da un punto di vista empirico è possibile confrontare i suoni che arrivano dalla zona equatoriale con quelli della zona sahariana e potremo trovare estreme differenze e complessità, ma a noi adesso interessa volare sopra il continente e cercare di scoprire quali sono stati i picchi che hanno portato tanti artisti ad avere una rilevanza riconosciuta ampiamente anche nella nostra cultura “occidentale” smaccatamente pop.
1. Spesso le band africane hanno una solida radice etnica e hanno una importante storia alle spalle, fatta di divisioni, genocidi e guerre fratricide. Se vogliamo, ad esempio, conoscere la realtà Rwandese non possiamo fare a meno che ascoltare un album come Rwanda, You Should Be Loved (2019) dei Good Ones, uscito lo scorso novembre. I Good Ones (che trovate nell’immagine di copertina) sono dei sopravvissuti, usano strumenti arcaici, sono spettatori e attori di un mondo contadino atavico e del tutto estraneo a chi in Africa non è nato e non ha condiviso lo sgomento di non avere nulla per la propria famiglia, per i propri animali, ma solo terra avara di frutti e di amore. I Good Ones cantano usando lo kyniarwanda dialettale, ma i titoli delle loro canzoni sono in inglese, cosi come inglesi e americani sono gli artisti che li hanno sostenuti e hanno fatto si che un trio musicale dell’Africa nera, crescesse da far musica in una fattoria a condividerla sui palchi degli Stati Uniti. Esibendosi senza elettricità, i tre musicisti hanno basato la loro esperienza su tradizioni canore che si perdono nei ricordi dei loro avi, hanno una presenza rurale, fatta di economia armonica che a volte – non sembra nemmeno vero – sembra la stessa degli artisti bluegrass americani (quando si dice, tutto il mondo è paese).
2. Molti artisti africani hanno “migrato” verso il nord Europa cercando etichette discografiche in grado di valorizzarli. È il caso della Jazzman Records che non solo fa delle ottime ristampe selezionate, ma cerca di dare spazio anche ad artisti contemporanei di comprovata qualità come Tumi Mogorosi, (album Project ELO, 2014) un giovane batterista sudafricano che continua l’idea musicale intrapresa dalla sua famiglia perpetuando un sapiente uso del proprio strumento. Totalmente diverso da artisti come i Good Ones, Mogorosi reca la sua Africa in un mondo più cosmopolita, arricchendo ogni brano di spiritualità.
3. Africa è anche reinterpretazione dove il labor limae e la sorprendente resa acustica di strumenti inusuali colora anche un brano come “In C” di Terry Riley. Potete ascoltare il tutto nel disco del 2015 degli Africa Express (Terry Riley’s C in Mali, 2015) in cui un pezzo di musica di per sé minimalista e ripetitiva riesce ad essere meno statico e in continua evoluzione, una sorta di “trance” estatica dai modi tradizionali.
4. Non possiamo dimenticare la vocalità che caratterizza la musica africana. Nel 2016 è uscito un bellissimo album di Blick Bassy intitolato Akö. “Se vogliamo cambiare il nostro avvenire, se vogliamo fare qualcosa per far crescere l’Africa, dobbiamo conoscere le nostre lingue, la nostra cultura, la nostra storia”, ha detto Bassy in un’intervista. Forse non ne era ancora consapevole, ma tra tante canzoni ancor più conosciute, Apple scelse proprio la sua Kiki per presentare l’iPhone 6. La sua musica è variegata, troverete il blues, la musica folk, la bossa nova, il tutto condito con una linea vocale delicata ma allo stesso tempo potente e una lingua come quella Bassa – una delle 265 parlate in Camerun – ancora limpida, vivace e ricca di armonia.
5. Ancora una voce, questa volta dal SudAfrica, Capo Orientale. Asanda “Msaki” Mvana ha registrato uno dei dischi più belli dello scorso decennio: “Zaneliza: how the water moves, 2016”, un album liricamente forte e musicalmente accattivante, che riesce a creare una sorta di melodia in 12 piccole gemme, mescolando qualcosa come jazz, afro-soul, blues e musica pop. Il merito di Msaki, al suo primo disco, è quello di aver consegnato il Sudafrica ad una dimensione internazionale. Un pezzo come “Liwa Lentliziyo”, ad esempio, non ha nulla da invidiare alle grandi produzioni pop occidentali.
6. Rimaniamo in Sudafrica con Open Letter to Adoniah, album di Sibusile Xaba del 2017. In copertina c’è un musicista sotto un albero che suona la chitarra. Non si discosta molto dall’effettiva immagine di Xaba che registra il suo disco da solo, in presa diretta, sulle montagne di Magaliesberg, non molto lontano da Johannesburg. In questo caso è da apprezzare il lato etnico della musica, quello “maskanda” tipico degli Zulu. In Africa definiscono quella di Xaba come “La musica suonata dall’uomo in movimento, il menestrello moderno, trovatore di oggi. La musica dell’uomo che cammina per le lunghe miglia per corteggiare una sposa o per incontrare il suo Capo. La musica dell’uomo che canta delle sue esperienze di vita, le sue gioie e i suoi dolori quotidiani, le sue osservazioni sul mondo. È la musica dell’uomo che ha il blues zulu”. Xaba suona accompagnato da due percussionisti, un trio come i Good Ones, la sua vocazione è di fare una sorta di poesia ispirata e soprattutto improvvisata. E ci riesce benissimo.
7. Tra gli album fondamentali per approcciarsi alla musica africana non possiamo tralasciare di certo l’esperienza di Ebo Taylor che, ormai 80enne, continua a produrre dischi strepitosi, pieni di ritmo e colore. Tra i tanti licenziati dal chitarrista ghanese troviamo un piccolo capolavoro come Love and Death del 2010. Parliamoci chiaro, Ebo Taylor è un decano del genere afrobeat, ma è considerato anche come uno dei padri nobili del funk. Negli anni ’70 condivideva il palco con un certo Fela Kuti (parleremo anche di lui in un articolo monografico), poi ha scelto di rimanere in Ghana mescolando jazz e passione per la musica europea contemporanea. A sostenerlo vi è un gruppo di tutto rispetto – come si confà per i maggiori esponenti afrobeat -, e storie che si dividono tra episodi storici (Kwane, ad esempio è una dedica a Kwame Nkrumah, pan-Africanista e fondatore politico del Ghana), storie d’amore e, ovviamente, morte.
8. Bombino, pseudonimo di Goumar Almoctar, è invece un cantautore nigerino di etnia tuareg. Sicuramente avrete sentito parlare di lui in quanto uno dei musicisti africani più popolari anche nel mondo occidentale. Chitarrista sopraffino, coniuga esperienze tipicamente subshariane con diteggiature già scoperte ed evidenziate da maestri e icone del calibro di Jimi Hendrix e Mark Knopfler (avete presente il cosiddetto fingerpricking?). Come molti dei musicisti citati in questo articolo, Bombino ha dovuto spostarsi spesso, cambiare casa, nazione, città, scappando da guerre e persecuzioni, una situazione di costante tensione che si ritrova nelle liriche e persino nel modo di produrre musica. Deran è il suo ultimo album, uscito nel 2018, ed è stato registrato a Casablanca, in Marocco. La sua tipicità risiede nell’essere riuscito a contaminare il rock e il pop con i suoni della sua Africa e della sua porzione di mondo, mai troppo stretto e mai troppo grande da riempire con note davvero pregiate.
9. Nel 2010 è uscito Jamm, il penultimo album di Cheikh Lô, nato in Burkina Faso da genitori senegalesi, è uno dei musicisti più apprezzati e più versatili della sua generazione. “È un melting pot!” Ha detto Lô a proposito dell’album. “È come un grande cestino, con del formaggio qui, del pane lì, del cioccolato e un cocktail sul lato. C’è qualcosa per tutti”. Accusato da molti di essere vissuto alle spalle di altri giganti africani come Youssou N’Dour, Lô ha invece acquisito col tempo una personalità sui generis, seguace di una setta Sufi, sempre vestito di colori sgargianti e pacifista convinto (Jamm, in Wolof, la principale lingua del Senegal, vuol dire proprio: pace). Lô canta anche in diverse lingue come il Mandinga, il Congolese e il Francese, suona assieme alla Bembeya Jazz National della Guinea e parla di Costa d’Avorio, Inghilterra, Cuba. Siamo di fronte ad uno dei dischi più onnicomprensivi del continente africano, in Jamm possiamo ascoltare la vera “storia” della musica africana, nelle sue contraddizioni ma anche nelle sue aspirazioni a diventare universale. Probabilmente il disco più bello degli ultimi 10 anni.
10. Sarebbe stato impossibile terminare questa esigua carrellata senza l’ascolto della voce di Fatoumata Diawara, eccentrica cantautrice del Mali, ma anche attrice, autrice, chitarrista e tanto, tanto altro. Diawara parla per le donne del suo paese, di matrimoni combinati, di mutilazioni genitali, lo fa lontano da casa, dalla Francia, eletta a sua nuova patria prima di stabilirsi sul lago di Como, ma non dimentica la sue origini inserendo nel suo secondo album Fenfo (in lingua bambara: “Qualcosa da dire”) del 2018 strumenti tradizionali come il ora e il kamele ngoni, tipicamente etnici, tipicamente africani. Ascoltare Diawara significa crearsi uno spazio per capire il futuro della musica, sonorità penetranti, pop e moderne. Se Cheikh Lô racconta il passato di un continente, Fatoumata Diawara è decisamente proiettata nel futuro di una dimensione pan-africana ancora tutto da esplorare.
Ok, abbiamo presentato 10, solo 10, dischi importanti per la musica africana dell’ultimo decennio. Abbiamo imparato che quando si parla di Africa dobbiamo sottendere anche sofisticate intuizioni armoniche, testi molto profondi e allo stesso tempo “umani”. La musica occidentale, quella che ascoltiamo per radio, ha depredato, come la civiltà, i suoni dell’Africa. Ma questa volta in modo benevolo, in tantissime composizioni pop, rock, jazz possiamo sentire l’impronta “materna” dell’Africa ed è una bellissima sensazione per chi fa musica e soprattutto per chi la ascolta. L’Africa è un coacervo di idiomi, di storie, spesso ammorbate dall’impronta globalizzante dell’Europa, eppure non ha mai dimenticato le proprie origini e ancora oggi, non di rado, esalta storie ed eventi che sono terminati nel sangue e nella terra, polverosa di periferie suburbane o desertiche. Un continente fatto di migrazioni è la stessa Africa della musica che contamina, riprende, rimescola ritmi, citazioni, strumenti impossibili da ricostruire e voci che sembrano uscite da un romanzo il cui autore viaggia a piedi scalzi, cantando armonie destinate alla leggenda.
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