Musei
Inside (business) Magritte
La sensazione è stata all’incirca questa: entrare nel ristorante pluri-menzionato (dove il piatto forte è, tra l’altro, uno dei tuoi cibi preferiti) a cui molti conoscenti ti hanno introdotto con la sicurezza dell’assioma qui si mangia bene, e restare allibiti da quanto il concetto di bene sia relativo.
È più o meno questa la sensazione che ho avuto uscendo da Inside Magritte, la mostra immersiva che fino al 10 febbraio occupa la Fabbrica del Vapore di Milano.
Vero è che quando l’aspettativa è alta (ce lo insegnano bene gli appuntamenti amorosi), lo è ancor più la delusione, ma in questo caso davvero troppi gli elementi di dissonanza (termine non casuale, visto che anche la musica di accompagnamento alle immagini ogni tanto salta e poco è adatta al contesto).
Di fatto: qualche pannello con la biografia di Magritte, qualche schermo con i suoi quadri in scorrimento, poi quella che dovrebbe essere il pezzo forte della mostra e cioè una grande sala completamente invasa da proiezioni di opere del pittore surrealista, accompagnate dai suoni di cui sopra. Qui, bambini che corrono, genitori che li riacciuffano, ragazzi seduti per terra che fanno del camping fuori sede e, immancabili, i generatori seriali di selfie con annessa sistematina capelli-e-posa.
Piccola area con visioni 3D, infine il bookshop, forse la parte meno inutile del percorso.
Più che immersione, un annegamento nella banalità e nell’intrattenimento facile, nemmeno troppo suggestivo che non aggiunge nulla né in termini emotivi, né nozionistici, né esperienziali. Un quasi-nulla che avrebbe potuto chiamarsi Inside Picasso o Pasta al Pomodoro, con relativo cambio di immagini, si intende.
Un po’ triste e un po’ patetica, lontana da Magritte, lontanissima dall’arte. Ma certamente riuscita, se la si guarda –outside- come un buon metodo di business, perfettamente in linea con i principi di omologazione e di consumismo che regnano sovrani.
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