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Il ritorno di Segantini a Milano

30 Novembre 2014

Dopo aver visto la grande (oltre 120 opere) e bella mostra a lui dedicata a Palazzo Reale a Milano,  da alcuni giorni sono in compagnia di Giovanni Segantini. È una compagnia che per certi aspetti sta diventando pervasiva se non ossessiva. Sono un piccolo borghese con sogni delicati d’artista. Subisco il fascino degli scrittori e degli artisti come un dopolavorista dello spirito che ogni tanto va a visitare la terra promessa che un giorno ha abbandonato per inseguire (e talora essere inseguito da) realistici progetti  di sopravvivenza.  “Vissi d’arte” è un programma  cui ho deliberatamente  rinunciato fin da subito  per paura del grande fallimento a fine tragitto: gli ho preferito quello a rate di una esistenza ordinaria con vistose riserve mentali artistoidi, convinto che si potesse essere “poeti” e pagare l’affitto.  Sbagliando  forse  tragicamente e totalizzando alla fine un uguale fallimento (mi consolo pensando  con Moravia che  una vita vale l’altra, perché in fondo son tutte sbagliate).

Più volte al giorno la mia mente va a Segantini. Non solo ai  suoi quadri che pure mi hanno molto impressionato, dico, alla sua personalità. Non sono un critico d’arte, non devo stabilire canoni né spiegare alcunché,  ma solo spiegarmi un’emozione:  sono soggetto  – come una sartina verso i bellimbusti –  alle fascinazioni degli scrittori o degli artisti con una netta personalità. C’è un suo Autoritratto  del 1895  che lo coglie nello sguardo magnetico di un piccolo Rasputin del pennello –  che ancora assedia la mia retina e mi procura sussultanti  risonanze interiori. Il viso lungo come quello della Sindone, una barba fluente che termina a due punte, uno sguardo intenso e recondito. Rammenta  quei santi greco-bizantini, e dunque i  monaci ortodossi che a questa iconografia inconsapevolmente o deliberatamente si ispirano. Ma oltre a  quell’autoritratto si vedono  nella mostra delle  foto (fig.1)  che restituiscono Segantini  come poteva essere un artista di fine ‘800, ossia  capelluto, barbuto, irsuto, informale nel sembiante e nel vestiario. Un bohémien, che detestava la borghesia e i suoi codici ma allo stesso tempo intrecciava  con essa rapporti di interesse e di scambio, visto che se riusciva a colpire l’immaginazione di un borghese e far breccia nella sua sensibilità indurita dal calcolo e dall’interesse, più diretta e più breve si faceva  la strada  per arrivare a scassinargli il portafoglio col suo consenso. La dialettica artista-borghese attraversa, più che ai giorni nostri, tutto lo “stupido” Ottocento,  come lo qualificava, con quell’aggettivo posto chiaramente  in antitesi, Montale che, come me,  ne era invece  del tutto  soggiogato.  In quel secolo la criniera dell’artista faceva pendant con il colletto duro delle camicie del borghese, e il déréglement de tous les sens del pittore en plein air  era speculare al principio di legge e ordine del  contabile  incastrato nella religione del denaro.  Erano il recto e il verso della stessa medaglia, il positivo e il negativo della stessa pellicola: l’uno negava e affermava hegelianamente l’altro e viceversa.  Non è un caso che la fortuna degli impressionisti fu decretata dagli acquisti in massa dei borghesissimi  alti funzionari dei Ministeri francesi ebbri di colore dopo una giornata passata nel grigio “pirla” delle carte.

Subito dopo aver visto la mostra ho comprato il catalogo (in editio minor) che ho cominciato a sfogliare già nel delizioso baretto con vista guglie del Duomo posto all’ultimo piano della Rinascente. Non appena giunto a casa ho cercato febbrilmente  in rete ogni notizia che lo riguardasse. Una sorpresa dietro l’altra. Innanzi tutto l’infanzia da  Senza famiglia  di Malot, da  David Copperfield  di Dickens.  Nasce nel Trentino ancora austriaco ad Arco nel 1858. A sei anni perde la madre. Struggente la lettera autobiografica  che scrisse  alla scrittrice milanese Neera.  «Nel corpo, ove il destino l’anima mi collocò, ebbi molto a lottare. Fu esso abbandonato, orfano a sei anni; così solo, senza amore, da tutti abbandonato come can rabbioso. Io in questo stato di cose non potevo (fare) a meno che inselvatichirmi, rimasi sempre irrequieto, ribelle a tutte le leggi costituite. La società coprì il mio corpo di fango e di fame, ma il suo fango e la sua fame non arrivarono fino a me; anzi più fango gittavano sul mio misero corpo, e più m’invigorivo nel sentimento di pietà per noi tutti miserabili. Non versai mai lacrima per i miei dolori; né per quelli del corpo mio; non lasciai mai oziare né la mente né il cuore e da loro appresi la conoscenza della vita e dell’amore universale. Amai sempre le povere mie compagne, i vecchi ed i fanciulli; perché parevami che l’amicizia d’essi, mi purificasse qualche poco. Non cercai mai un Dio fuori di me stesso, perché ero persuaso che Dio fosse in noi, e che ciascuno di noi ne possedeva e ne poteva acquistare, facendo delle opere belle, buone e generose; che ciascuno di noi è parte di Dio, come ciascun atomo è parte dell’universo. Non cercai mai altra felicità all’infuori dell’unica vera, quella della conoscenza. Amai e rispettai sempre la donna, in qualunque condizione ella fosse purché avesse viscere di madre».

In questo testo autobiografico  (nella mostra è riportato solo un brano) c’è la personalità che mi ha catturato.  Ora, si discute da sempre sul rapporto artista-opera. Flaubert diceva:  «L’artista deve operare in modo da far credere alla posterità  che egli non sia vissuto. Meno me ne faccio un’idea e più mi sembra grande. Niente mi posso immaginare della persona di Omero, di Rabelais, e quando penso a Michelangelo, vedo, di spalle solamente, un vegliardo di statura colossale che scolpisce la notte al chiarore delle fiaccole… Per l’idea che ho dell’Arte credo che non si debba mostrare le proprie [convinzioni], e che l’artista non debba apparire nella sua opera, come Dio nella natura. L’uomo è nulla, l’opera tutto! ».  Al contrario Sainte-Beuve s’interrogava sulla necessità, al fine di comprendere l’opera di un artista, di conoscerne la biografia. Sono queste delle questioni indecidibili, perché c’è della verità in entrambe le posizioni. Comprendo perciò  le ragioni di Flaubert  ma alla fine mi dichiaro d’accordo con Sainte-Beuve e con Zola rammento  che «l’opera di un artista è una sezione di realtà attraversata da un temperamento» (Il romanzo sperimentale ).

E occorre conoscerlo questo temperamento.  A me pare che sia  impossibile cogliere l’opera di un artista al netto delle sue notizie biografiche.  È  nella sua vita trasfigurata, proiettata, talvolta contraffatta nell’opera che cogliamo il senso di un progetto artistico oltre che  di un destino individuale. Ed è attraverso la vita dell’artista, in virtù  dell’urto della sua personalità contro il reale che si forma  il suo particolare “sguardo” per mezzo del  quale  ci  viene poi  restituita quella sezione di realtà che egli ha attraversato. Spesso capire un’opera, anche di scrittura,  ma ancor più di  pittura – che dall’occhio direttamente dipende – è saper cogliere quello “sguardo”,  l’angolo visuale con cui e  in cui un mondo sorge e tramonta nella coscienza di un artista. Per cui affiancando al percorso proposto dalla mostra che enuclea giustamente  i tre periodi, quello milanese, tonale post scapigliato; quello di transizione brianzolo,  e quello di approdo, svizzero, dei grandi capolavori divisionisti,  ho isolato i miei tre momenti tematici che mi hanno aiutato in qualche modo a semplificare la mia personale lettura, anche ex post,  di  tutta l’esposizione  seguendo  almeno tre direttrici: 1) la difficile vita; 2) il rapporto con la madre e la maternità; 3) l’incredulità di fondo dell’artista che non si tramutò, almeno da quello che ho visto,  in aperto anticlericalismo.

1) Per tutta la vita Segantini padroneggiò male la lingua italiana (la curatrice  Annie-Paule Quinsac  ha compiuto  qualche sforzo nel restituirci nei cartigli che sormontano l’allestimento  i suoi testi talvolta  corretti nell’ortografia e nella sintassi). Le ristrettezze  economiche – la sua famiglia fu assistita per un certo periodo  dal comune – gli impedirono di avere una istruzione regolare. Contro  questo destino di “umiliato e offeso”  sorge la potente personalità dell’artista, perché misteriose sono le strade che conducono all’affermazione di sé. «Sembravano avversità ed invece erano opportunità» scriverà Vico.  Viene a vivere a Milano ospite di una sorellastra e qui vi conduce i primi anni da “senza famiglia”, arrestato per vagabondaggio addirittura e rinchiuso nel riformatorio Marchiondi.

In un secondo soggiorno milanese riesce a frequentare le lezioni di Brera e dopo aver dipinto splendidamente L’oratorio di Sant’Antonio  del 1879 (fig.2) subito notato in una mostra  riesce a sortire  dall’anonimato. Come nei romanzi di Balzac incontra il suo Vautrin, l’uomo che gli cambia i connotati e gli  dà un destino:  si tratta di Vittore Grubicy (fig.3), un borghese milanese  di origine ungherese (ci deve essere una via segreta  che collega le famiglie milanesi a quelle ungheresi: qualche decennio  dopo nasceva in via Manzoni  da madre ungherese il gran Lombardo Carlo Emilio Gadda). Vittore Grubicy  dispone  di mezzi  e di collegamenti internazionali. Ingaggia l’artista squattrinato, gli fornisce uno stipendio mensile  oltre la percentuale delle vendita dei quadri in cambio anche, ed è clausola azzardata,  di diritto di firma dei quadri approntati dall’artista. Ma sarà una “mano santa” quella di Grubicy e non si ricorderà mai abbastanza l’opera di questi “artisti vicari”, per procura e delega  (come Bobi Bazlen, nell’editoria), che indirizzano, ispirano, plasmano addirittura un artista, procurandogli materiale, contatti, suggestioni (Grubicy gli compra  i cataloghi di Millet e gli  suggerisce più tardi la svolta divisionista) oltre che assicurargli l’agognata  serenità economica. È il trionfo della dialettica artista-borghese, dell’arte e del business, della vita sognata e immaginata nella pittura e dell’interesse economico che si  ricava dalla vendita dei quadri. Arte e denaro, disinteresse e interesse che si eccitano vicendevolmente, congiunti dialetticamente com’è giusto che sia.

Segantini è soggiogato dal lusso e per tutta la vita, da ex povero rimasto tale nell’intimo (Márquez diceva che dopo aver vinto il Nobel ed essere diventato ricco si considerava sempre “un povero con i soldi”), vivrà al di sopra dei propri mezzi, tanto da essere espulso dal paese di Savognino (nei Grigioni) per non aver pagato le tasse. Gli svizzeri non hanno mai scherzato col denaro avendoci un rapporto professionale e non “artistico”.  Incredibile e commovente la morte del nostro amato pittore avvenuta poco più che  quarantenne per una banale appendicite, volta in peritonite, che lo coglie in alta montagna e che lo uccide dopo una settimana di terribile agonia. Un tempo si moriva così, si spegnevano esistenze che avrebbero soggiogato il mondo con ulteriori profluvi di arte e di bello per un accidenti oggi risibile.

2) La morte della mamma è riflessa nell’ opera con la ripresa costante  del tema  – vera “metafora ossessiva” – della maternità   in molti quadri.  Ne  Le due madri  1889  (fig. 4)  e nell’altro dipinto  dallo stesso titolo del 1891,  in  Ave Maria a trasbordo II  (fig.5 ), ne  Le cattive madri  1894) (fig. 6) e  ne L’angelo della vita  1894 ( fig.7) . Un tema costante che svela il dolore della perdita e la sua rievocazione ricorrente  lungo  tutta  un’esistenza.  Nel saggio  Attaccamento e perdita  (Bollati Boringhieri, 1999)  di John  Bowlby si troveranno alcune osservazioni illuminanti  sulle implicazioni che hanno per la psicologia e la psicopatologia della personalità le modalità di reazione dei bambini piccoli a una perdita temporanea o permanente della figura materna. Quella frase «Amai e rispettai sempre la donna, in qualunque condizione ella fosse purché avesse viscere di madre» intende indicare non la donna fattrice del fascismo di qualche decennio dopo, ma la genitrice che per generosità più che per impulso biologico rinnova la vita. La genitrice sempre presente nella memoria dall’artista adulto.

3) In uno scritto non datato ma risalente al periodo di Savognino, il pittore scrive: «L’arte deve rimpiazzare il vuoto lasciato in noi dalle religioni: l’arte dell’avvenire dovrà apparire come scienza dello spirito, essendo l’opera d’arte rivelazione di esso».  Affermazione che fa il paio con quella di sopra: «Non cercai mai un Dio fuori di me stesso, perché ero persuaso che Dio fosse in noi, e che ciascuno di noi ne possedeva e ne poteva acquistare, facendo delle opere belle, buone e generose; che ciascuno di noi è parte di Dio, come ciascun atomo è parte dell’universo». A giudicare dai quadri non ci troviamo mai nel mondo pittorico di Segantini  in una polemica antireligiosa. Era quella l’epoca dopotutto di  Podrecca e de “L’Asino” e dell’anticlericalismo facile da “osteria” come ricorderà Gramsci. Diciamo piuttosto che quello di Segantini verso la religione è un programma da “non aderire né sabotare”. Visse in unione libera con la Bice Bugatti parente del Bugatti delle automobili famose,  e non credeva sicuramente in alcun Dio confessionale. Dai quadri traspare una religiosità panteista, spinoziana, il  “Deus sive natura” divisionista dei suoi grandi capolavori alpestri del periodo svizzero, a partire dai  due  Mezzogiorno sulle alpi  del 1891 (fig.8)  e del 1892,  anche se in alcune tele  tange la religiosità popolare come  ne La benedizione delle pecore 1884 del periodo brianzolo, e in altre cede a forme di rappresentazione religiosa non convenzionale come nella stessa  Ave Maria a trasbordo II  ove si può ipotizzare una sorta di allusione alla Sacra Famiglia mentre in altri, come nell’Ave Maria sui monti del 1890  alla maniera scoperta di  Millet,  nel  nitido e bellissimo  Il dolore confortato dalla fede  del  1895-96 (fig. 9 ) ove tra l’altro appare un Cristo su una croce, come anche ne  La vita (Trittico della natura) 1896-1899  in cui si può  leggere una laica Madonna con il Bambino, sembra allentarsi  l’incredulità di fondo del pittore che ci pare avesse però  raggiunto il massimo dell’irriverenza in un quadro del precedente periodo brianzolo, polemico  anche se non sembra tale  a prima vista.  Si tratta di  A messa prima del 1884-6 (fig. 10) e ritrae un anziano parroco “triste solitario y final” colto in una luce declinante sulla  scalinata barocca della chiesa di Veduggio. Un quadro molto bello e profetico che oggi potrebbe effigiare la crisi delle vocazioni di cui è affetta l’anziana Chiesa Cattolica.  Ebbene è una tela “riscritta”: l’originale vedeva una donna incinta (presumibilmente la stessa moglie Bice) con un cane a fianco e in alto della scalinata  le comari che mormorano. Il titolo del quadro era  in origine Non assolta. I commenti maligni  1884, di cui è rimasta solo la foto. Chiara allusione al clima bigotto soffocante in cui il pittore incredulo e convivente con una donna in libera unione era costretto a vivere nel piccolo villaggio di Pusiano.  Ecco, sembra dire Segantini, se non vi piace una donna incinta, una genitrice, sappiate che non vi resterà altro che un vecchio  e cadente parroco.

 La mostra è aperta fino al 18 gennaio . Palazzo Reale –  Milano, Piazza del Duomo.

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