Infrastrutture
Wu Ming 1 e 25 anni di No Tav: lunghi viaggi, grandi opere e altre storie
Un viaggio che non promettiamo breve, pubblicato da Einaudi lo scorso novembre, è un libro di 650 pagine che Wu Ming 1, al secolo Roberto Bui, ha impiegato alcuni anni a scrivere, anni in cui ha frequentato il movimento No Tav e ha raccolto una imponente documentazione sull’argomento. La disamina, in quello che è un reportage piuttosto sui generis, tanto militante quanto puntigliosamente argomentato, non si limita a raccontare il movimento che da 25 anni si oppone al progetto ferroviario della Torino-Lione e alle sue innumerevoli fasi, ma allarga il discorso all’Alta Velocità, alle Grandi Opere e alla necessità di farvi o meno ricorso, alle distorsioni mediatiche di cui questi temi secondo l’autore sono stati oggetto e alla repressione giudiziaria che ha colpito a più riprese lo stesso movimento. Un’opera che sta continuando a collezionare ristampe, della quale, soprattutto, si è discusso anche al di fuori della solida base di lettori su cui può contare il collettivo letterario bolognese, e al di fuori degli ambienti No Tav. Ne discutiamo anche qui, parlandone con l’autore.
Un viaggio che non promettiamo breve parla di quella che è stata quasi sempre trattata dalla gran parte dei media italiani come la lotta ultralocalistica di una piccola minoranza di montanari ostili al progresso, infiltrati da facinorosi, “anarcoinsurrezionalisti” e altri nemici pubblici. Un movimento, per farla breve, “nimby”, not in my backyard, e pure violento. Al di là del fatto che tu nel libro contesti la definizione di “nimby”, la chiave di lettura che offri è diametralmente opposta: è una lotta che riguarda tutti noi, anche se non ce ne siamo ancora accorti.
Per fortuna sempre più persone se ne accorgono. Va detto che da tempo nemmeno la controparte diretta dei No Tav ricorre più alla fola dei “Nimby”, perché si coprirebbero di ridicolo. Se c’è un movimento italiano che discute e agisce su un piano più vasto, sistemico, e si coordina con altri movimenti in Europa e nel mondo, quello è il movimento No Tav. Ed è un movimento competente, che da sempre ricorre ai saperi tecnico-scientifici, tant’è che argomenta nei minimi dettagli, con cifre e dati, l’inutilità dell’opera, mentre chi vuole quest’ultima non ne ha mai, dico mai, argomentato l’utilità in modo sensato.
Non è il movimento No Tav a essere “Nimby”, è la controparte a essere “Ieby”, In Everyone’s Backyard. Il capitalismo italiano è stagnante, e in uno dei paesi più cementificati e infrastrutturati d’Europa (lo dicono tutte le ricerche sul consumo di suolo) non sa proporre altro che nuove colate, nuovo cemento armato, nuovo asfalto, nuove grandi opere fini a se stesse, nuovi trafori per i camion del “movimento terra” (spesso in mano alla ‘ndrangheta, che ne approfitta per smaltire abusivamente rifiuti “speciali”)… L’importante è che continuino a girare le betoniere delle aziende amiche.
Chiunque si intenda di trasporti e non abbia interessi in qualche progetto dice che il vero fine di queste infrastrutture non è trasportistico ma edilizio. “Io mi occupo di logistica, non di operazioni immobiliari”, rispose Sergio Bologna a Luca Rastello che gli chiedeva dell’alta velocità ferroviaria. E basta guardare le stazioni AV di Torino Porta Susa, di Bologna, di Reggio Emilia, di Roma Tiburtina, di Napoli Afragola per capire che non stiamo davvero parlando di trasporti, ma di edilizia. Sotto l’aspetto della razionalità trasportistica, quei colossali catafalchi non hanno alcuna funzione. Lo ha ammesso anche l’amministratore delegato di RFI Maurizio Gentile, quando ha stoppato la stazione sotterranea AV – la cosiddetta “stazione Foster” – di Firenze. Faccio notare che nel complesso queste stazioni sono costate svariati miliardi di euro, un gigantesco sperpero di denaro pubblico, risorse sottratte alla collettività, in un paese dove ci si indigna tanto per bufale comprovate come i «35 euro al giorno dati ai profughi», e molto meno per gli sprechi reali.
Ma mentre a Firenze stoppano la stazione Foster, a Susa, che ha solo diecimila abitanti, vogliono costruire una faraonica “stazione internazionale”. Si sa già che non servirà assolutamente a nulla, non farà che generare nuovo debito pubblico, scavando ancora il fondo della voragine di debito creatasi in vent’anni di AV e invano stigmatizzata dalla Corte dei Conti. Chi lo fa notare è “Nimby”, oppure è chi la propone a essere “Ieby”? Di fronte all’accusa di “nimbismo”, i No Tav hanno davvero il gioco troppo facile, è per questo che se ne è fortemente diradato l’uso.
Se quello No Tav fosse stato solo un movimento “Nimby”, sarebbe tornato a casa nel 2005, dopo avere sconfitto il progetto di allora, oggi sconfessato anche dalla controparte e riconosciuto devastante. Invece, dopo avere ucciso quattro progetti (due dei quali arrivati alla fase definitiva), dopo aver costretto la controparte a rinunciare a sempre più pezzi del progetto attuale (tanto che resta solo l’intenzione di costruire la stazione di Susa e scavare il tunnel di base, poco importa se quest’ultimo sarà fine a sé stesso e come soluzione è già reso obsoleto dai sistemi di recupero dell’energia in frenata), dopo aver conseguito tante vittorie (vittorie indicibili, che gli avversari non possono riconoscere come tali e i media mainstream non raccontano), il movimento No Tav è ancora mobilitato. Non solo contro il poco che rimane del progetto Torino-Lione, ma contro l’intero sistema delle grandi opere inutili e imposte, dal Mose al Ponte sullo Stretto, dal “Terzo Valico” al tunnel di base del Brennero, dalla Nuova Romea Commerciale (la “Orte-Mestre”) al tunnel AV sotto Firenze.
Questo libro non parla solamente di appalti poco chiari e interpretazioni arbitrarie del concetto di legalità applicata all’ambito delle infrastrutture. Tratta anche quello che si potrebbe definire, dal tuo punto di vista, un caso esemplare nell’utilizzazione, e sperimentazione, di meccanismi repressivi.
A partire dal 2010 la Val di Susa è diventata un laboratorio per l’azione penale contro i movimenti. La Procura di Torino, guidata fino al 2013 da Gian Carlo Caselli e in seguito da Armando Spataro, ha condotto e sta conducendo molti esperimenti che ricordano molto quelli di quarant’anni fa, il periodo in cui venne introdotta la legislazione d’emergenza – nominalmente contro il terrorismo ma usata contro l’ampio arco dei movimenti dell’epoca Non a caso Spataro e Caselli sono due anziani protagonisti di quella stagione… A Torino abbiamo assistito a una radicale estensione del concetto di “concorso di persone nel reato”, a un vero e proprio lievitare della nozione di “condotta con finalità di terrorismo” (applicata a banali danneggiamenti), a un ricorso sempre più frequente – e secondo molti giuristi sproporzionato – a misure di custodia cautelare. Al momenti ci sono attivisti No Tav agli arresti domiciliari per azioni – come dice spesso l’avvocato Claudio Novaro – di rilevanza “bagatellare”, e per giunta costretti all’ulteriore afflizione del “braccialetto elettronico”.
Concentrare un simile approccio “emergenziale” nel territorio limitato di una valle alpina è come prendere la lente d’ingrandimento e puntarla su un formicaio. Con la lente d’ingrandimento ogni condotta diventa enorme, ogni fatterello diventa un attentato alle istituzioni e la Val di Susa diventa un gigantesco “covo”. Il passo successivo è usare la lente per focalizzare la luce del sole e punire i “cattivi” col fuoco.
Per fortuna quest’approccio – prediletto soprattutto da alcuni procuratori aggiunti che il movimento ha soprannominato «i PM con l’elmetto» – ha già conosciuto molte sconfitte. Ad esempio, sulla lievitazione del concetto di «terrorismo» sono arrivati precisi stop dalla Cassazione. Quanto alle misure cautelari afflittive, nei mesi scorsi il movimento ha portato avanti una campagna di disobbedienza civile agli arresti domiciliari, usando come testimonial l’attivista Nicoletta Dosio, che alla fine l’ha spuntata, la sua misura è stata ritirata.
Per realizzare quella che definisci la biografia narrativa di un movimento hai scritto un’opera che è solo parzialmente ascrivibile al reportage. Scelta che si inserisce in un percorso sulle narrazioni che tu e gli altri componenti del collettivo Wu Ming praticate, con livelli crescenti di consapevolezza nel superamento dei generi, fin dall’inizio. Questo libro è anch’esso un oggetto letterario non identificato, in cui ad un certo punto ricorri addirittura a stilemi horror: l’Opera diventa una specie di Entità. Eventuali detrattori potrebbero considerarlo un escamotage, forse un modo per arrendersi all’impossibilità di descrivere “l’avversario”. A me invece colpisce molto la connotazione simbolica: il movimento come un insieme di persone, fatto di sogni, desideri, valori, dall’altra una entità inumana, che sembra nutrirsi di questa energia positiva trasformandola nel suo opposto. Non c’era il rischio di una eccessiva letterarizzazione del libro, che da un certo punto di vista è un rigoroso e documentatissimo reportage? O di una eccessiva romanticizzazione del movimento?
In realtà nessun detrattore si è fatto vivo, nessuno ha contestato quella scelta poetica, il filone “lovecraftiano” del libro. Io mi aspettavo critiche, obiezioni, ma forse è successo questo: poiché l’obiezione me la sono fatta da solo e l’ho incorporata direttamente nel libro (il carteggio con Lovecraft nasce da quello), la scelta è stata spiegata in corso d’opera e quindi è apparsa giustificata. A un certo punto io espongo i miei dubbi a un collega più esperto e titolato, gli chiedo, più o meno: «Ho avuto quest’idea di rappresentare ogni tanto il progetto della Torino-Lione in forma allegorica, come un mostro indefinibile, un’Entità. Ma come faccio a incastonare quelle parti allegoriche nell’impianto di un libro di non-fiction dove la precisione fattuale è importantissima, e dove ogni affermazione deve essere supportata da fonti e dati, riscontrabile e verificabile?» Il collega, pur essendo morto da un’ottantina d’anni, mi risponde per iscritto dandomi un consiglio. Consiglio che io accetto e seguo per tutto il libro, pur con qualche licenza. Il risultato è un reportage narrativo che ogni tanto si tramuta in romanzo horror. Ripeto, nessuno ha avuto da ridire. Nemmeno il quadragonissimo Caselli, che ha criticato il libro sotto tutt’altri aspetti, ma non questo!
Quanto alla «romanticizzazione» del movimento, c’è senz’altro una tonalità epica e da chanson de geste nel riferire le gesta dei No Tav, ma credo sia anche nella natura di quelle gesta: obiettivamente in valle succedono cose incredibili, questo movimento va avanti da oltre un quarto di secolo, ha evitato un sacco di trappole ed è animato da persone di grande spessore e calore umano. In ogni caso, ho cercato di mostrare anche i momenti di crisi (il biennio 2008-2009, ad esempio), i contrasti interni, le diversità di vedute sul M5S.
In poco più di quattro mesi dall’uscita, al di là del fatto che il libro è già in ristampa, non sono mancati gli sviluppi interessanti. Ad esempio quella che definisci una “reticensione” ad opera di Caselli, uno con cui non vai leggero nelle pagine del libro. Libro pure esibito in una seduta parlamentare da un esponente di Sinistra Italiana, ma anche, sempre in ambito parlamentare, in contesti più tecnici. Il libro sta creando discussioni e reazioni anche al di fuori di quella che potremmo definire la vostra abituale “fanbase”, e del movimento stesso.
Mentre rispondo a quest’intervista sto preparando il bagaglio per un mini-tour in bassa Lombardia. Presenterò Un viaggio che non promettiamo breve prima a Vigevano e poi a Pavia. Si tratta rispettivamente della trentesima e trentunesima presentazione in quattro mesi. Sono in giro da novembre e ho incontrato le persone più disparate. Una delle frasi che mi viene detta più spesso è: «Grazie, pensavo di essere una persone informata, ma di tutta questa storia non avevo capito niente, mi ero fidato di […]» Al posto dell’omissis puoi mettere uno o l’altro dei grandi mezzi di informazione fruiti – per semplificare – a “sinistra”, soprattutto Repubblica. Sì, Repubblica è la più nominata: «Mi ero fidato di Repubblica». Il libro sta arrivando a lettrici e lettori che la lotta No Tav l’avevano orecchiata (non orecchiarla era impossibile), ma nulla di più, e ora scoprono di colpo venticinque anni di storia e storie. Tutti in una volta, e per alcuni è uno shock: «è successo tutto questo e nessuno me l’aveva mai raccontato!». Perché sono persone che i numerosi libri già usciti sulla lotta No Tav non li avevano ancora intercettati. Li scoprono ora, partendo dal mio. Ecco, questo era uno dei miei propositi: raccontare la lotta No Tav a chi la conosceva malissimo, con un libro diverso da tutto quanto era stato scritto in precedenza. Arrivare a persone che sono «informate», ma nel senso che leggono i giornali. Il problema è che i giornali – almeno quelli mainstream – fanno disinformazione.
Il libro è aggiornato all’estate 2016. Alcuni mesi dopo, poco dopo l’uscita ha destato un certo malumore, in alcuni settori No Tav, questa perlomeno è la percezione, una dichiarazione di Alberto Perino, il quale avrebbe affermato che un governo grillino era in grado di fermare l’opera una volta per tutte. Sei stato sempre molto critico nei confronti del M5S, denunciandone la natura intrinsecamente reazionaria, per non dire proto-fascista. Anche se, come osservi più volte nel corso del libro, il movimento si è sempre aperto degli spazi all’interno della politica, con l’accortezza di non legarsi ad alcuna sigla in modo permanente, rinegoziando i rapporti a seconda della convergenza degli obbiettivi, non c’è il rischio che il movimento No Tav possa perdere questa sua peculiarità, quella autonomia che lo ha reso un fenomeno unico?
Parto da un dato di fatto: in Val di Susa il numero di sindaci grillini è zero. Le amministrazioni No Tav – che sono la stragrande maggioranza – sono espressione di liste civiche legate al movimento. Sovente, il Movimento 5 Stelle è stato esplicitamente dissuaso dal presentare una propria lista, per non disperdere il voto No Tav. È accaduto a Susa alle ultime amministrative, ad esempio. Quanto ad Alberto Perino, persona sulla cui indipendenza non è necessario spendere una sola parola, è lo stesso che dice: «nessuno ci risolverà questo problema dall’alto, la lotta si vince in valle, si vince alle reti del cantiere, si vince nei boschi», e anche: «abbiamo fatto sparire dalla valle partiti ben più storici [il riferimento è a Rifondazione e Verdi], possiamo far sparire anche questo, se volterà gabbana». Quando la neosindaca di Torino Chiara Appendino sembrava tergiversare sull’uscita del suo comune dall’Osservatorio tecnico sulla Torino-Lione, Mario Cavargna – uno dei più rispettati esponenti No Tav – le ha scritto una lettera aperta che terminava più o meno così: «Si ricordi che fine ha fatto Mercedes Bresso». Il rapporto dei No Tav con il M5S è articolato, dialettico e, quando necessario, conflittuale. Il movimento ha molte anime, alcuni votano tatticamente M5S, molti altri non votano, ma nemmeno chi vota M5S si è affidato cuore in mano al partito di Grillo. Non c’è delega, il movimento fa la sua strada. Aggiungo un’ultima cosa: io trovo il M5S nazionale repellente, per non dire di quello bolognese. La loro fortuna è che il PD è ancora più repellente, dunque siamo sempre nel frame dei presunti “mali minori”. Però – è una cosa che dico sempre – esponenti del M5S piemontese come Marco Scibona e Francesca Frediani sono prima No Tav e poi grillini. Loro due li rispetto. L’anomalia selvaggia della Val di Susa curva tutto lo spazio intorno e influenza anche il M5S locale. Certo, sarebbe bello se la lotta No Tav non avesse proprio alcun bisogno di quella “sponda”, ma you can’t always get what you want. Passerà anche questa. Sono certo che il M5S durerà molto meno della lotta contro le grandi opere inutili.
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