Letteratura

Vite apocrife di Francesco d’Assisi

13 Luglio 2020

“Lo scartellato, per esempio. Stava seduto due tavoli più avanti. Che meraviglioso oggetto di studio!“Ogni volta che andava, a quel gobbetto se lo ritrovava là. Si vede che frequentava assiduamente il Due Sicilie, né c’era da stupirsene, data la sua ghiottoneria. Come al solito, aveva davanti a sé due coppe di sorbetto alte così, di due gusti diversi, mai gli stessi. Piluccava di qua e di là, di qua e di là. …“Indossava  un soprabito turchino, liso, e portava calze rattoppate. In compenso aveva un bel fazzoletto al collo: memore di una ricchezza ormai trascorsa? O una tale trascuratezza nel vestire – forse di questo si trattava, più che di reale indigenza – era il segno di un’indole inquieta, ribelle, o magari dell’ascetismo tipico di certi artisti moderni? …Gli altri avventori lo salutavano ed egli rispondeva sempre cordialmente, con il sorriso di chi conosce tanto a fondo gli uomini da essere giunto dapprima a disprezzarli per le loro manchevolezze, per l’inadeguatezza al ruolo di somma responsabilità affidato loro dall’Eterno, poi, per quella stessa inadeguatezza e quelle stesse manchevolezze, a compiangerli, e quasi a giustificarli. ( La carrozza di Priapo, pagg, 196-98)

Massimiliano Felli

Il passo qui sopra è un cameo da un romanzo del 2016, il terzo di quattro che Massimilano Felli ha dedicato alle indagini del commissario Cafasso, un ispettore di polizia napoletano tra gli ultimi anni del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, nell’ordine: Il velo davanti agli occhi, Il fuoco in fondo al mare, La carrozza di Priapo e De Peccatis Nostris, tutti pubblicati dalla Stamperia del Valentino, tra il 2015 e il 2017. Nel cameo compare lo “scartellato”, Giacomo Leopardi, goloso di sorbetti, come il commissario Cafasso. Gli scugnizzi lo beffano per la gobba. E lui per risposta dà i numeri da giocarsi al lotto. Li gioca anche il commissario, e perde. Sono quattro romanzi godibilissimi, e restituiscono con vivacità ammirevole la vita napoletana di quel periodo, e di sempre. Inesauribile l’invenzione linguistica che ricostruisce appunto attraverso la lingua, un’epoca, una città. Il genere non preclude analisi storiche, sociologiche, non trascura il profondo, l’occulto e – se si vuole – l’inconscio dei personaggi. L’intrattenimento non esclude la cultura, anzi è reso più vario, e più interessante, proprio dal sostrato fittissimo di riferimenti culturali. Che nell’ultimo romanzo, De Peccatis Nostris, si fa sostanza stessa del racconto. La vicenda si svolgel infatti, dopo la fallita Rivoluzione Napoletana del 1799, e l’esergo crociano, che campeggia nella prima pagina, ne chiarisce bene il senso e l’allusione all’oggi: “Mai come allora in Napoli si vide il monarca mandare alla morte / … / tutto il fiore intellettuale e morale del paese”. Ed è su quello spegnimento che il narratore crede di cogliere la prova generale di un altro e successivo spegnimento, quello che ancora stiamo vivendo, oggi, in Italia. De Peccatis Nostris è del 2017. Tre anni dopo, per i tipi di Fazi, escono le Vite apocrife di Francesco d’Assisi. Napoli è abbandonata. E anche un’epoca che fu il preludio della nostra modernità, ma insieme anche il presentimento del declino della modernità, la preveggenza – a Napoli possibile come in nessun’altra città – del post-moderno, della confusione dei linguaggi. Qui, invece, indietreggiamo all’autunno, se non al tramonto, del Medio Evo, e all’aprirsi, tragico, di quel contrasto, anzi di quel conflitto, tra capitale e felicità umana, di cui ancora non vediamo né la soluzione né la fine. E che il conflitto si faccia più aspro, e perfino più feroce, proprio all’interno della stessa famiglia, non è tanto l’accertamento d’un dato archeologico, alle origini del capitalismo italiano, quanto lo stigma di un peccato originale della società italiana non ancora perdonato, figuriamoci poi redento. Il padre di Francesco è un mercante, e il nome stesso del figlio – che significa francese – testimonia la vastità dei suoi campi d’azione, la dimensione europea del mercato di cui insieme fa parte ed è promotore. E’ da questo campo d’azione che il figlio si distacca, ed anzi vi si oppone: al possesso contrappone l’assoluta indigenza, la povertà. Felli coglie, come aveva già fatto Dante, il nodo stesso del messaggio e dell’azione di Francesco: l’obbligo di una povertà assoluta, il rifiuto di qualunque possesso materiale. Molti commentatori hanno rimproverato, e rimproverano ancora, a Dante di avere inteso solo parzialmente il messaggio francescano, di averlo circoscritto all’obbligo della povertà, tralasciando e trascurando gli altri aspetti della teologia e dell’umanesimo francescani. Ma non è così. Intanto Dante mette in scena nel canto di Francesco (Paradiso, XI) una vera e propria sacra rappresentazione, i cui protagonisti sono Francesco e Madonna Povertà. Ma non è un caso che a inscenarla sia un Dottore della Chiesa, San Tommaso, che oltre tutto, per molti versi, è anche il riferimento teologico della Commedia. Come a dire che nell’esaltazione delle stato di natura, della nuda povertà dell’uomo – e lo svestimento pubblico, in piazza, d’ogni indumento ne è l’epifania umana, simile a quella di Cristo nudo nella culla di Betlemme – in quest’assoluta nudità del corpo e integrale indigenza, si mostra la fratellanza della creatura uomo a tutte le altre creature del creato. Compresa la fratellanza della morte: “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare”. Perché tutto il reale è buono. Il male non appartiene al reale, ma proviene dall’uomo, può introdurlo nel mondo solo l’azione umana: anche in ciò Francesco mostra una perfetta sintonia con il pensiero di Dante (e di Tommaso), quando nel Purgatorio spiega le origini del male: “lo naturale è sempre sanza errore” (XVII, 94). L’uomo che si adegua a questa nudità integrale di tutte le creature è l’uomo che meglio imita Cristo, l’uomo ch’è solo nuda natura e non possiede niente. Il peccato più grave diventa allora di appropriarsi di una parte del reale e farne il proprio esclusivo possesso: escludendone, appunto, gli altri. La contesa delle cose possedute diventa così la causa delle contese umane. Non ci si meravigli della somiglianza di questo principio francescano con la critica della proprietà privata nel Capitale, e prima ancora nei Manoscritti economici filosofici del ‘44, di Marx. Nel ‘200 la predicazione di Francesco appariva, infatti, ugualmente rivoluzionaria quanto quella di Marx nel secolo XIX e in seguito. Tanto rivoluzionaria che l’Ordine fondato da Francesco subito, ancora vivo il Santo, si divise tra chi voleva restare fedele alla lettera del prescrizione di povertà e chi voleva invece intenderla come messaggio morale, allegorico, di distacco dai beni terreni per dedicarsi alla vita spirituale: per la serenità di questo distacco, i beni posseduti non dai singoli frati, ma dall’Ordine, diventano così necessari. Vinsero i secondi, i conventi si arricchiscono d’immense proprietà terriere e logicamente le autorità dell’Ordine vollero far scomparire qualsiasi testimonianza che potesse invece mostrare quanto Francesco intendesse alla lettera l’ingiunzione di povertà. Il romanzo s’incentra perciò sulla figura di un segretario di San Bonaventura, fra’ Deodato, amanuense che ha copiato in varie biblioteche d’Europa le vite del Santo. San Bonaventura ha scritto un vita di San Francesco che vuole sia considerata l’unica ufficiale. l’unica ammessa, approvata e conosciuta dalla Cristianità. Chiede perciò al suo segretario di recuperare, nelle biblioteche dei vari monasteri, tutte le altre vite, che raccontano episodi a suo dire non veri della vita del Santo di Assisi. Di raccogliere e distruggerle insieme alle altre che egli ha già copiato. Deodato non se la sente di ubbidire. E qualcosa di quei racconti riemerge nel suo racconto. Il romanzo non ha un filo cronologico, ma narra, parallelamente, le vicende di Francesco e di Deodato, che si svolgono più di mezzo secolo dopo. Deodato non si pronuncia sulla veridicità dei racconti. L’ “Avvertenza” premessa al romanzo è indispensabile: “Benché basato su fonti storiche, il presente romanzo è da considerarsi un’opera d’invenzione narrativa. Come talvolta sono le fonti storiche stesse”. Il veleno sta nella seconda frase. Ma non entro nei particolari della narrazione, per non privare il lettore del piacere di scoprirli. Vivacissima tutta la prima parte che racconta la vita di Francesco prima della prigionia e della concersione, le sue scorribande e i suoi piaceri di giovin signore. Si dubita, poi, delle stimmate, si dubita della castità di Francesco e di Chiara. Ma perché veramente Francesco non ricevette le stimmate e veramente gli incontri con Chiara non furono mistici ma carnali? In realtà questa è la versione di chi racconta, Deodato o le sue fonti. Non del romanziere. E lo stesso Deodato non le dà per fatti certi, perché lui non ne fu testimone, e quando potrebbe avere una prova, anche indiretta – la chiave che dà accesso a un ingresso segreto nel convento di San Damiano dove in una cella vive Chiara, Deodato si rifiuta di adoperarla, potrebbe essere la chiave giusta oppure no, ma non vuole scoprirlo. “La storia che i testimoni t’hanno raccontato, a loro volta ignorandone le cause prime e il fine ultimo, non gravarla d’interpretazioni”. Dice Deodato al suo giovane segretario, anche lui un amanuense: “di mistificazioni. A che giova? Enumera i nudi eventi, copiali in bell’ordine così come accaddero, o meglio, come credi in coscienza che siano accaduti. Sine glossa. Rammentalo. Né esegesi, né postille; sospendi il giudizio. Finalmente abbandonato all’umano stupore, arreso all’inestricabilità delle cose di Dio e del mondo, tu sarai un poco più prossimo ad intuire il vero: sine ulla glossa”. In fondo I fioretti di San Francesco sono anch’essi, a loro modo, vite apocrife. E’ apocrifo ogni racconto che non sia la vita vissuta, fosse anche il racconto di chi quella vita l’ha vissuta. O mica immagineremo che la Vita di Benvenuto Cellini; oppure Poesia e Verità, l’autobiografia di Goethe; o la Vita scritta da esso, l’autobiografia di Vittorio Alfieri, raccontino davvero le loro vite, e non siano invece anche questi scritti, che si presentano come autobiografici, nient’altro che il romanzo delle loro vite. Non ultimo fascino di quest’avvincente romanzo è, però, soprattutto la sua lingua. Massimiliano Felli ci aveva abituati alla lingua vivacissima dei quattro romanzi napoletani. Qui cambia registro. Ma non si butta a inventarsi un’improbabile lingua del Duecento. Non è D’Annunzio che riscrive la Vita di Cola di Rienzo. Adopera la lingua di oggi. Ma la farcisce di citazioni, di termini, che la precipitano nel crogiolo linguistico ed esistenziale di ottocento anni fa. Soprattutto fa un largo uso della lingua latina di allora. Senza tradurla. E fa bene. Che il lettori si sforzino di captare la familiarità di quegli uomini con la lingua latina. Era la loro lingua quotidiana, più del volgare. Era comunque la lingua dei documenti, delle regole, dei convegni, dei conclavi, dei processi per eresia, delle università. Ed è il latino che ha contratto i dittonghi, scrive puelle, non puellae. Eccone un esempio, bellissimo: Eius – Sancti Francisci – temporibus, celo sua dona pluente, / Edidit Asisium florem sydusque novellum, / Claram, qua floret, qua claret mundus, et ordo / Virgineus quondam premortuus orbe revixit; / Cuius odore novo, cuius splendore beato / Preredolet patria, provincia tota coruscat. / Fertilis Asisii tellus generosaque vitis, / Duplice sub fructu gaudens … (pag. 219)

A ognuno, dopo la lettura, decifrare il messaggio contemporaneo sotteso al racconto. Si fa un gran parlare, oggi, del destino delle società capitalistiche, dell’esito che avranno gli scontri tra gli egoismi locali e un universalismo più di parole che di fatti. Abbiamo un Papa che si chiama Francesco, e forse non a caso, un papa che per alcuni, per una parte del mondo cristiano, è motivo di scandalo. Rileggersi in termini attuali la più essenziale cronaca duecentesca potrebbe aprirci gli occhi a eventi che non vediamo. Facciamo un gran tumulto, noi cristiani dell’Occidente, per il “sultano” turco che vuole riconvertire in moschea la cattedrale di Santa Sofia, a Costantinopoli, oggi Istanbul, ma dimentichiamo che noi cristiani d’Occidente abbiamo convertito in cattedrale cristiana la moschea di Cordoba, abbiamo anzi fatto di più, l’abbiamo deturpata, costruendoci dentro, per la sua immensità, addirittura un’altra cattedrale, una cattedrale gotica, che vi sta dentro come un corpo estraneo, un meteorite piombato dallo spazio. Perfino l’Imperatore Carlo V ne inorridì e lo definì un crimine”. Ma di crimini è punteggiata tutta la storia umana. In ogni epoca. L’addomesticamento del messaggio francescano fu anch’esso, forse, un crimine. Se non altro, fu, forse, un’occasione mancata, un privilegio perduto. Riconoscerci per quel niente che siamo. Ma non ci riuscirà, m’immagino, nemmeno l’invasiva minaccia di un virus, a convincere l’umanità di non essere niente. Il suo orgoglio smisurato è più forte di qualsiasi evidenza la realtà si ostini a buttarle addosso. E continuiamo dunque a non voler guardar fuori, a fissarci l’ombelico. Lo scartellato, da cui siamo partiti, l’aveva scritto chiaramente: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non essere nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”. Leopardi, Zibaldone, 16 settembre 1832

Massimiliano Felli, vite apocrife di francesco d’assisi, Roma, Fazi Editore, 2020, pagg. 371, € 17,00

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