Costume

Virus and Civilization – Virus e Civiltà

11 Marzo 2020

In un’epoca di epidemie e di quarantene ci si può sbizzarrire a leggere, per chi sa farlo, un sacco di libri scritti sull’argomento, saggi o romanzi. Anche per trarre conforto, per avere un’idea di come ha funzionato in passato e funziona oggi la comunicazione, e quanto abbiano influito la superstizione religiosa e non, la sanità, i governi, i coprifuochi, le carestie, eccetera. Il tempo per dedicarsi a questo c’è, stando barricati in casa e quasi guardati a vista, anche se molti infrangono le regole e vanno in giro a sparpagliare o a raccogliere germi, ma anche questo è descritto in molti libri sul soggetto. Nel frattempo, che coincidenza, decine di migliaia di soldati americani (forze NATO) decidono di fare un’ “esercitazione” in Europa. Mah, ognuno pensi ciò che vuole e si crei la propria verità, come Pirandello insegna.

Ma una pausa letteraria, in questa noiosissima o allarmante o, semplicemente, ineluttabile parata di dati di contagi, di morti, di guariti, di zone rosse bianche e verdi, forse il cittadino se la merita. C’è chi preferisce guardare dei film su Sky o su altre pay tv, chi mette dei DVD, chi scarica dalla rete, chi si distrugge (ulteriormente) l’intelletto coi videogiochi. Chi ha riscoperto l’antico svago dei solitari colle carte. Chi, finalmente, ha il tempo sacrosanto di ascoltarsi le Variazioni Goldberg in tutte le interpretazioni possibili. Ah, questo è uno dei miei piaceri preferiti, soprattutto dopo che ho buttato la tv già ai tempi del passaggio al digitale terrestre.

E poi leggere, e scrivere anche, certo.

La lettura, dicevamo. Visti i tempi io proporrei la rilettura di classici, che male non fanno mai, anche per riappropriarsi di un certo lessico; adesso il tempo abbonda e non c’è fretta. Basta coi periodi formati da una principale e stop, come in molta letteratura contemporanea.

Riscopriamo quindi il Decameron di Giovanni Boccaccio, a proposito di epidemie. L’allegra brigata di giovani, assai benestanti pure per l’epoca, che poteva permettersi di isolarsi in una dimora di campagna con parco per novellare di storie comiche di Calandrino e Frate Cipolla o dell’amore infelice di Lisabetta da Messina o dell’amoralità arguta di Ciappelletto, beffandosi della pestilenza che a metà del 1300 infuriava a Firenze.

Ecco, il Decameron potrebbe essere una bella rilettura, dopo l’antica esperienza scolastica, per chi l’ha avuta. Certo, oggi, una simile brigata di giovani che se ne andasse in campagna a fare la quarantena avrebbe un sapore alquanto snobistico; e meno che mai i giovani d’oggi sarebbero capaci, tutti e dieci, di novellare, già è assai se riescono a imbastire un discorso sensato. Basti vedere i reclusi del Grande Fratello, che benestanti sono, eccome, e la pochezza delle conversazioni.

Naturalmente non possono mancare i Promessi Sposi e la Colonna Infame di Alessandro Manzoni; nel romanzo, la pestilenza è vista in chiave più storica e anche come indifferenza divina, dal momento che muoiono buoni e cattivi; nel saggio storico, come attacco alle leggi speciali di repressione – si giustiziarono due innocenti – checché ne dica Croce. Ma sono pagine di grande effetto. Anche questa rilettura post-scolastica potrebbe far riflettere su ciò che sta accadendo nella moderna Europa, coi cinesi e gli italiani presunti untori.

Non può mancare Morte a Venezia, di Thomas Mann, dove il morbo non è la peste ma il colera. Venezia, la città più turistica nel 1912 come oggidì, funestata dal morbo, guarda caso proveniente dall’Asia. Il disfacimento metaforico di un periodo storico, culturale, sociale, l’annientamento attraverso un vibrione che colpisce tutti indistintamente. E le vicende estetico-erotiche di un professore infatuato della gioventù. Tutto vietato, refrigerato per tempi migliori in cui si potrà tornare a strofinarsi per bene e magari anche provarci piacere. Ma sicuramente non sarà più come prima. E già, perché la quarantena obbligatoria per i single è assai impegnativa, sottacendo le necessità del corpo e della mente. Morte a Venezia comunque non cesserà di deliziarvi per la profondità dell’opera, per chi non l’ha letto ancora.

Torniamo alla peste, che trionfa perfino nel titolo di Albert Camus, La Peste, appunto. È singolare che nelle principali lingue neolatine, italiano, francese e castigliano, il titolo resti invariato e polivalente, La peste è la peste in tutti e tre gli idiomi, quasi unificati dal morbo. La peste in Camus si presta, come il colera di Venezia, ad essere interpretata metaforicamente come un morbo invasore, in questo caso il nazismo e il suo dilagare in Europa. Così forse sarà per il coronavirus, quando qualcuno scriverà un romanzo sui sopravvissuti e sulle vicende che l’hanno generato, come è stato trattato dalle autorità e dalle varie nazioni e quali fossero gli atteggiamenti della scienza, dell’opinione pubblica e delle entità sovranazionali. Una bella metaforona della disgregazione immediata del sistema capitalistico, con tutti gli annessi e i connessi, l’ignoranza e la noncuranza delle plebi, gli scienziati che litigano, l’informazione che anziché informare fa terrorismo, stati che assembrano eserciti ai confini, leggi marziali in fiorenti democrazie che avevano obliato lo stato di emergenza, e così via. Anzi, non ci si dovrebbe meravigliare che sia già stato scritto, probabilmente negli U.S.A., dove potrebbe prossimamente uscire un film sul soggetto, quasi che tutto fosse un’operazione preparata da tempo e innescata con un pulsante di accensione.

Ma andiamo avanti colle letture edificanti.

Uno dei miei storici preferiti, Carlo M. Cipolla, è parecchio prolifico sul tema. Per oltre un ventennio, tra i primi anni 70 e i primi 90, Cipolla si interessò delle pestilenze in Europa sia in pubblicazioni in inglese sia in italiano. E sono un bel po’.

Si comincia con Cristofano and the plague. A study in the history of public health in the age of Galileo (Londra – Los Angeles – Berkeley 1973) poi tradotto in italiano: Cristofano e la peste (Bologna 1976). Dove si narra del medico pratese Cristofano Ceffini, alle prese colla pestilenza a Prato, il quale affrontò l’epidemia con determinazione senza risparmiarsi.  Poi arrivò Public health and the medical profession in the Renaissance (Cambridge 1976) e, l’anno dopo, Chi ruppe i rastelli a Montelupo? (Bologna, Il Mulino 1977). In quest’ultimo lavoro Cipolla narra della confusione che si ebbe a Montelupo, il piccolo paese toscano capitale della ceramica, tra il 1630 e il 1632, dove tutto diventa un gran calderone di peste, superstizioni, anatemi religiosi, e autentiche tragedie. Il 1979 fu la volta de I pidocchi e il Granduca (Bologna, Il Mulino), e qui non c’è la peste come causa epidemica ma il tifo, che invase Firenze per ben sei anni, dal 1617 al 1623. I lavori di Cipolla sull’argomento epidemico però non finiscono qui, perché sempre negli stessi anni ci furono delle conferenze alla Madison University Fighting the plague in seventeenth century Italy, Madison University of Wisconsin Press 1981; trad. it. Il pestifero e contagioso morboCombattere la peste nell’Italia del Seicento, Bologna, Il Mulino 2012); e poi Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento (Bologna, Il Mulino 1986), La peste e i precursori di Malthus in Saggi di storia economica e sociale (Bologna, Il Mulino 1988), Miasmi e umori. Ecologia e condizioni sanitarie in Toscana nel Seicento (Bologna, Il Mulino 1989).

In tutti i lavori è sempre presente il solito problema nella diffusione di un’epidemia, ossia lo stato dell’igiene e la sua precarietà in piccoli o grandi centri e quanto questo possa influire sullo scoppio e sulla propagazione della pestilenza.  Di certo Carlo M. Cipolla ha dedicato molti anni allo studio delle epidemie dal punto di vista storico, ed è una cosa che sarebbe estremamente utile da conoscere per i cosiddetti esperti della protezione civile o dei governi che abbiamo avuto in precedenza, che tagliano tagliano tagliano la sanità, la scuola e la ricerca, illusi dall’aspetto pacifico e scintillante dell’epoca in cui viviamo. Dove la cosa più importante sembra essere svuotare di merci i centri commerciali il sabato e la domenica.

Mi piace ricordare una cosa che nessuno sembra rammentare e che risale allo scorso agosto, quando la Lega era ancora in sella, pochi giorni prima dell’annuncio fatale del Capitan de’ Capitani. Giorgetti, secondo alcuni la faccia “presentabile” della Lega, più del Capitano senza macchia e senza paura (di cui Giorgetti era il braccio destro e sinistro), in un meeting a Rimini di Comunione e Liberazione così rispose a Roberto Speranza, sulla richiesta di maggiori fondi per la sanità:

“Caro Speranza, è vero, mancheranno 45mila medici di base nei prossimi cinque anni. Ma chi va più dal medico di base? Senza offesa per i medici di base anche qui presenti in sala. Nel mio piccolo paese vanno ovviamente per fare le ricette mediche, ma quelli che hanno meno di cinquant’anni vanno su internet, si fanno fare le autoprescrizioni su internet, cercano lo specialista. Tutto questo mondo qui, quello del medico di cui ci si fidava anche, è finita anche quella roba lì.”

Proviamo a immaginare l’eliminazione dei medici di base in un momento come questo, dove ne dovrebbero essere assunti immediatamente in tutto il paese a decine di migliaia e l’impatto che avrebbe avuto una decisione come quella di Giorgetti se si fosse realizzata. Ma siccome la gente è imbambolata dai quiz e dai varietà televisivi con culi e tette ormai da decenni, queste cose non se le ricorda e continua ad appoggiare simili figuri, credendo che vogliano il loro benessere. Io invece ricordo. Eh sì, quella roba lì è proprio finita.

La lettura di quei romanzi e quei saggi fa riflettere anche su questo e su come affrontare le epidemie.  Di materiale ce n’è abbastanza, trovateli, ormai si trova tutto, e fateveli mandare a casa. Chi li ha li presti agli amici e ai familiari, dopo averli immersi nell’amuchina superstite, in modo da fermare il periglioso contagio. Buona lettura.

Riprendiamo una frase eccellente da La Peste di Camus, che mi piace particolarmente e che si adatta allo stato d’animo di molti, oggi, riguardo all’epidemia:“Quando scoppia una guerra, la gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida”. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare.”

 

 

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