Letteratura
Viaggio nell’anima del mare
“Le radici del mare” è una raccolta di dodici racconti dedicati al mare, inteso come elemento e come simbolo. Sono il frutto di una passione profonda e di una ricerca narrativa lunga dieci anni; sono diversi per temi e ambientazione ma rispondono tutti a una domanda fondamentale: quante cose dentro e fuori dal mare fanno il simbolo del mare? O, altrimenti detto, quante cose dentro e fuori di noi fanno la suggestione del mare?
“Il marchio” è il racconto più breve della raccolta. Parla di come il mare ci sfida, ci colpisce, ci plasma, apparentemente in modo fisico, e di come a un certo punto comprendiamo che, senza bisogno del contatto fisico, il mare ci ha già plasmati in una dimensione più intima, più remota e impercettibile. In realtà, prima ancora che nell’elemento, noi siamo immersi nel simbolo, ce lo portiamo dentro come un impulso prenatale, una quieta – e a volte bruciante – reminiscenza.
Il marchio
Non seppe mai cosa l’aveva morso.
Alla base del collo mentre nuotava. Quattro bracciate dopo che avrebbe dovuto fermarsi. Non si era fermato.
All’ultima bracciata fuori ordinanza sentì un dolore acuto dietro la spalla sinistra, come se avesse urtato un oggetto tagliente o una qualche forma di creatura marina l’avesse azzannato. Sentì il rumore croccante del morso.
Con un paio di gambate si raddrizzò in fretta e poi si guardò la spalla. Si aspettava di trovare una ferita sanguinante ma non c’era niente. Cercò la striscia del raschio, la pelle arrossata in rilievo ma non c’era niente. Solo un bruciore, intenso sotto il sole, e il tempo fermo a un minuto prima.
Era previsto che si fermasse anche lui, ma lui aveva voluto continuare. Così, per saggiare le forze. Era un mattino strano: lucido di sole e vento e inquieto dopo una notte di tempesta. Le onde erano alte e la corrente tirava verso sud-est, ma lui si sentiva abbastanza forte. Poteva fare altre quattro bracciate.
L’aveva fatto.
Non era previsto e nemmeno necessario, non serviva al lavoro. Gli era servito a questo. Prendersi un morso senza autore. Così imparava.
Scelse in un attimo tra un vortice di impulsi. Si guardò intorno per trovare il colpevole. Niente. Un pesce, si disse, qualcosa spinto via dalla corrente. Un pesce no, non poteva essere.
Riavvolse il pensiero fino al momento in cui s’era tuffato, quando aveva deciso di fare il giro delle sommozzate, su e giù nello specchio d’acqua antistante al villaggio, per sbrogliare le reti ingarbugliate dalla tempesta e favorire il recupero ai pescatori. A lui, che era giovane e piuttosto in basso nella gerarchia, toccava il lavoro duro. Di pura fatica.
Non l’avesse fatto, non poteva vivere.
Lasciò il lavoro a metà e nuotò verso riva, facendo forza con le gambe per darsi la spinta. Salì nella spiaggetta dove teneva le sue cose, cibo e un po’ d’acqua per quando sarebbe tornato stremato. Quasi alla base del collo la spalla gli doleva.
Lavò la parte, che già cominciava a indurirsi, con acqua salata e poi con acqua dolce, come gli avevano insegnato i pescatori. Era la procedura corretta per tutti i “morsi del mare” e garantiva un momentaneo sollievo. Nei giorni successivi dovette saltare il lavoro: zuppa di pesce fresco e un unguento disinfettante furono la sua indennità d’infortunio. La parte colpita si gonfiò, la pelle sgranata e i pori dilatati a dismisura. Comparvero segni scuri, livide incisioni a forma di dente, impresse come un tatuaggio e disposte in cerchio, nel punto esatto del morso. Fermentarono bolle infette lungo tutta la superficie urticata. L’unguento le seccava o le faceva esplodere e quelle espellevano sporcizia giallastra e scoprivano carne viva al di sotto.
Il dolore insisté per la durata dell’infezione, due settimane buone, poi cominciò ad affievolirsi e sembrava avviato a scomparire. Ma non scomparve. L’unguento per cauterizzare la ferita gli lasciò una sensibilizzazione all’acqua salata e alla luce del sole, che era come dire agli elementi più comuni del suo ambiente.
Non poteva nuotare, stendere la bracciata e ruotarla, senza provare un fastidio acuto alla base del collo. Sulle paranze non gli era più concesso starsene in coperta a petto nudo, senza lo scudo di un camiciotto imbevuto d’acqua.
La ferita aveva penetrato l’epidermide e intaccato il tessuto connettivo. Si era avvolta in un groviglio con la carne. Quando la pelle macerata guarì rimasero le incisioni livide di quelli che dovevano essere denti. Simboli di una lingua non umana. Il marchio di qualcosa che l’aveva toccato.
Dai segni il dolore continuò a parlargli, quando non poteva fare a meno di sentirlo. Al culmine della concentrazione, quando avrebbe sentito anche un fruscio. Continuò a colpirlo e a ritirarsi, come un pugile astuto, per tormentarlo senza farlo impazzire. E lui imparò ogni lezione, fino a scordarsi com’era stato vivere quando non c’era.
Lo maledì e cercò di trovargli un senso e poi si rassegnò. E il dolore gli mangiò un po’ di nervi e un po’ di felicità. Lo conservò fino a quando era molto vecchio e riuscì lo stesso a vivere fino ad essere molto vecchio.
Non scoprì mai cosa l’avesse morso. Agli altri diceva un mostro. L’ignoto. Il destino. Il kerke. Una piccola verdesca. Un morso di coscienza. Un castigo divino. La coda del diavolo. O niente.
Forse ci era nato, come ci doveva morire.
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