Letteratura
Viaggio in Cile
1998, esattamente 20 anni fa.
Trovo un vecchio block notes utilizzato durante un viaggio di studio in Cile, con alcuni colleghi.
Riporto qui le annotazioni relative alle ultime due giornate, un sabato e una domenica, dedicati a qualche visita turistica:
Sabato 6 giugno
Che liberazione! Non ci sono più visite stipate nel corso della giornata, pomeriggi in cui le palpebre pesano una tonnellata con qualcuno che ti parla in spagnolo e tu che ti senti colpevole se non resisti al sonno o pensi ai cavoli tuoi.
Adesso per due giorni è puro divertimento.
Mi abbandono al senso di estraneità e di distanza dal quotidiano che dovrebbe dare un viaggio come questo, agli antipodi del mondo.
Il pullman che ci porterà da Santiago a Valparaiso è fuori dall’albergo che ci aspetta.
Con un certo disappunto apprendiamo che abbiamo una guida: un italiano sui settant’anni invadente come pochi che per tutta la giornata cercherà di portarci nei negozi di lapislazzuli o nei ristoranti sui quali ha la provvigione.
Lo sgamiamo quasi subito e decidiamo di ignorarlo. Mangiamo delle empanadas in un baretto costringendolo a disdire il ristorante che aveva prenotato, entriamo nel negozio di lapislazzuli, ma ne usciamo tutti in massa e troppo all’unisono per non apparire d’accordo cinque secondi dopo. Alla fine capisce e si chiude nel suo guscio.
La strada che porta a Valparaiso assomiglia alle strade che si vedono nei film americani: una interminabile, a tratti ondulata, striscia d’asfalto tra due brughiere brulle e polverose estese a perdita d’occhio.
Facciamo una sola fermata intermedia in un piccolo bar.
Andiamo a fare una visita ai servizi e ci scompisciamo dalle risate.
La tazza del water è riparata -si fa per dire- da sguardi indiscreti, mediante un tramezzo alto da terra circa… un metro e venti.
Al quale ci appoggiamo con i gomiti, fissando il malcapitato che ha avuto la dabbenaggine di accovacciarvisi.
Valparaiso è disordinata e sciatta : stili architettonici mescolati alla rinfusa, palmizi qua e lá, botteghe di tutti i generi, ma uguali tra loro, come se vendessero tutte lo stesso prodotto.
Ci sono città che hanno un organico modello di sviluppo, altre che crescono per disordinate manipolazioni successive. Ecco, Valparaiso è la seconda che ho detto.
Città “accesa, spumeggiante, dissoluta” dal “luccichio magnetico”, la definiva Neruda.
A me Valparaiso sembra soprattutto la città delle scale: dritte, storte, larghe, strette, brevi e lunghissime, coprono la città come un manto di rughe.
Assomiglia a certe nostre città del sud: vecchi palazzi del primo Novecento assediati da abitazioni più recenti e ordinarie, una grande quantità di negozietti di alimentari, di frutta e verdure, di ferramenta, di vestiti, che fronteggiano la concorrenza dei supermercati della periferia.
Visitiamo la casa di Neruda, “la Sebastiana”.
Cinque piani, due stanze per piano. In ogni stanza grandi finestre che guardano l’oceano: sembrano quadri dai colori teneri e violenti.
Dappertutto, un po’ come nelle poesie di don Pablo, nelle quali affiorano di continuo immagini insolite e colorite, oggetti sorprendenti e bizzarri: vecchie polene, binocoli, antichi forzieri di legno, bussole, grandi conchiglie.
Ovunque si sente l’impronta di un poeta non abituato ad appaltare all’Ikea la definizione del proprio habitat.
Più tardi saliamo sulla collina che domina la città, che raggiungiamo grazie ad una teleferica. La giornata si è fatta luminosa e il porto e la città si vedono distintamente.
Anche nel porto domina la mescolanza disordinata dei diversi.
Navi imponenti dall’aspetto moderno stanno addossate a vecchissimi cargo ormai vicini alla pensione o a piccoli pescherecci.
Pomeriggio a Viňa del Mar, sorta di Jesolo cilena.
Accidenti, penso, è la prima volta che vedo il Pacifico!
Ciondoliamo per buona parte del pomeriggio, fotografiamo i leoni marini e i pellicani, giochiamo a calcio sulla spiaggia con un pallone leggero comprato per l’occasione, ci facciamo prendere dalla malinconia del tramonto.
Domenica 7 giugno
Anche qui é d’obbligo una visita al mercatino.
A venti minuti di taxi dall’albergo c’è una specie di villaggetto di case tipo pueblo e ognuna di queste casette è una botteguccia di quadri, di lapislazzuli ( alla fine ci escono dagli occhi) oppure di bambole o di magliette.
Passiamo lì l’intera mattinata poi andiamo a goderci il panorama nel punto più alto della città.
Il tempo è buono, ma non è una giornata luminosa, non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che Santiago sia una citta’ dai colori smorti. Ritorniamo giu’ con un’ovovia.
Ho comprato tutto il comprabile per moglie e figlia (non fate mai mancare i la lapislazzuli alle vostre donne) e mi sono persino arreso all’assurda idea di comprare un bastone della pioggia.
Mi piace il rumore fresco e argentino che proviene da quegli aggeggi. Sarà una complicazione in più per il bagaglio, ma pazienza.
Il pomeriggio é un po’ triste sia perché ormai il viaggio é finito sia perché lo impieghiamo mescolandoci ad una enorme folla di cileni che sciamano da un centro commerciale all’altro. Tutti aperti, traboccanti di merci e di persone. Puoi comprare tutto, ma alla fine non c’é niente che ti serva veramente o niente che troveresti solo qui.
La sera la passiamo in un ristorante, il più bello di tutto il viaggio. I camerieri sono abilissimi nel mescolare tra loro, facendole colare su un piatto, creme liquide di vari colori e sapori che poi si trasfomano in fantasiosi disegni.
A me tocca un cigno, immergere il cucchiaio in questo piccolo capolavoro mi sembra quasi una profanazione. L’atmosfera, nonostante l’imminente partenza e la necessità di ritornare ai consueti affanni dai quali abbiamo preso un temporaneo congedo, è allegra. Buono il cibo, buona la compagnia.
Accontentiamoci di questo.
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