Letteratura
Veneziani: il fascino irresistibile del mito secondo Pavese
Veneziani ci restituisce, con l’antologia degli scritti di Pavese curata per l’editore Valecchi- Cesare Pavese il mito-, l’interpretazione più veritiera, direi fondativa, del controverso scrittore piemontese.
Dobbiamo infatti comprendere che alla radice dell’opera di Pavese c’è una diffusa e pervasiva cultura del Mito.
Veneziani ci aiuta, nella selezione degli scritti di Pavese ben incastonati nel libro anche con un indice intelligente, a capire quali siano state le categorie, i propellenti della poetica del Nostro.
Si ritrovano nel mito dell’infanzia, dell’adolescenza, delle ferie di agosto, della poesia, del mistero dell’irrazionale.
E qui Veneziani ci accompagna nel percorso dell’ispirazione di Pavese che individua- per la sua concezione del mito- in Vico e Nietzsche, ma interpretati con altre lenti, due fondamentali riferimenti.
Vico, contrariamente alla vulgata marxista, secondo cui con il mito si entra nel cuore del processo storico, per Pavese, di converso, il filosofo napoletano rappresentava il biglietto di ritorno che riconduceva dalla Storia al Mito.
Mentre la tradizione marxista trovava in Vico la chiave per entrare nel cuore del processo della dialettica posta a base del materialismo storico, Pavese percorreva il cammino inverso e dallo storicismo vichiano spiccava il volo per ritrovare il mitico mondo delle origini.
Analogamente occorre rifuggire dall’interpretazione di Nietzsche come il filosofo che abbia preannunciato e sia precursore del nazismo. Ma ricordando il magistero di Colli e Montinari- studiosi di fama mondiale di Nietzsche che non ebbero ingresso nella casa editrice Einaudi della quale Pavese ne era redattore e curatore insieme ad Italo Calvino bensì con l’Adelphi- abbiamo una rivisitazione del pensiero del filosofo tedesco.
Si ha la contezza che cosa sia “l’eterno ritorno”,che rientra nell’ossatura del mito.
Veneziani ci ricorda che Pavese ha tradotto Nietzsche e ne è rimasto affascinato.
Il mito nietzschiano dell’eterno ritorno è presente in Pavese sin dal 1935 e affiora nei suoi appunti diaristici; così come è fruttuosa e ricca di suggestioni la lettura ripetuta che Pavese fa de “La Nascita della Tragedia” del giovane Nietzsche, nel 1940, che ispira nella diade Apollo-Dioniso, spirito olimpico contro spirito titanico, l’ossatura tematica dei “Dialoghi con Leucò”.
Tra il 1944 e il 1945 Pavese traduce 270 aforismi della Volontà di Potenza nietzschiana.
Il mito dell’eterno ritorno in Pavese, attinge non solo da Nietzsche ma anche da Mircea Eliade, precisa Veneziani.
Ma il Nietzsche di Pavese non è il profeta del Superuomo, della Volontà di Potenza e nemmeno dell’Anticristo; ma è il filosofo-filologo che ama il pensiero, la tragedia e la mitologia greca e scorge dietro il «razionalismo» e la dialettica, l’emersione di forze originarie e di una visione tragica della vita. Infine, una coincidenza: Torino fu la città in cui si rivelò la pazzia di Nietzsche, il 3 gennaio del 1889, entrando in una notte oscura da cui non si riprese più; e fu pure la città in cui nella notte del 27 agosto del 1950 si tolse la vita Pavese.
Veneziani sfata anche un’altra versione che vede Pavese come antifascista. Non è così.
Pavese fu mandato al confino per coprire una militante comunista «dalla voce roca», Tina, di cui era innamorato.
Pavese chiese e ottenne da Mussolini la grazia, dimostrando la sua estraneità all’antifascismo. Nella sua lettera del 15 gennaio 1936 dal confino di Brancaleone rivolta al ministro dell’interno e al capo del governo, Pavese confessa la sua leggerezza di non essersi rivolto subito direttamente al Duce “benché consigliatone da parenti e beneficati che ne conoscono tutta l’umanità”.
Pavese confidò che il suo antifascismo «fu un equivoco. Una persona mi chiese di usare il mio indirizzo per una corrispondenza politica clandestina; accettai per far piacere a quella persona, ma non aprii mai quelle lettere. Mi limitavo a consegnarle. Per non danneggiare quella persona andai al confino senza dir nulla. Tutto qui. Non c’è proprio niente di meritorio»
Quella persona era Battistina Pizzardo, la Tina di cui dicevamo, militante comunista torinese: egli andò al confino per amor cortese (non ricambiato).
Ma è noto che dalla dirigenza del partito comunista dell’epoca fu avversato.
Era uno spirito libero Pavese ed indubbiamente un grande intellettuale e studioso indiscusso anche della letteratura americana oltre che del mito classico.
Questo dava fastidio all’egemonia culturale dell’ “Intellettuale Collettivo”, di impronta gramsciana, proseguita poi da Togliatti.
La polemica con la dirigenza comunista era divampata per le modalità con le quali Pavese aveva curato la famosa “collana viola” di Einaudi, con pochi riferimenti alle opere della tradizione marxista.
Quando Pavese si suicidò, Felice Balbo commentò: «Con la morte di Pavese venne a mancare l’ultimo residuo puntello dell’autonomia della Casa editrice», trasformata in «terza forza paracomunista».
“Politicamente sospetto “fu il verdetto che Ernesto De Martino, il grande antropologo legato al Pci, emise in una lettera a Giulio Einaudi a quattro giorni dal suicidio di Pavese. Per lo studioso napoletano, Pavese aveva scritto «documenti assai gravi» che mostravano la sua «involuzione culturale».
Ma Veneziani ci ricorda come Pavese aveva manifestato simpatie per la Repubblica Sociale di Salò.
Lorenzo Mondo pubblicò su “La Stampa” diretta da Paolo Mieli il diario rimosso di Pavese ai tempi della guerra. In quelle note Pavese si spingeva ad apprezzare il fascismo di Salò, il manifesto fascista di Verona.
Mondo mostrò “i taccuini” inediti a Italo Calvino, vigile custode dell’Intellettuale Collettivo. Calvino, nel racconto di Mondo, «impallidì» e piombò in un lungo silenzio. Poi suggerì di metterli in cassaforte e non darli alle stampe per evitare «le speculazioni volgari che avrebbero fatto». Poi alla morte del Pci e di Calvino, nel 1990, quelle pagine vennero alla luce. Ne riparlò Mondo nel suo libro dedicato a Pavese, Quell’antico ragazzo (Guanda, 2021), pubblicato pochi mesi prima di morire. Per Mondo quei pensieri rimossi erano schegge impazzite e la loro esclusione dal “Mestiere di vivere” rientrava in una «complessa strategia del rimorso».
È però da notare che Pavese non ha bruciato quelle pagine sconvenienti ma le ha conservate, quasi a lasciare ai posteri – finita la tempesta – la possibilità e la responsabilità di riaprirle e il compito di rifare i conti con una storia controversa, all’epoca ancora incandescente. Giustamente Mondo nota la divergenza tra Pavese e gli antifascisti ai tempi della R.S.I. «Gli antifascisti si augurano che l’Italia sia sconfitta» mentre Pavese nei taccuini del suo diario stralciati dal Mestiere di vivere, «scopre in sé una vena di patriottismo residuale che gli sembra aderire ai sacrifici e alle speranze dei più, al dolore di un’Italia martoriata e avvilita dall’occupazione straniera».
Pavese non fu fascista, pur avendone avuto la tentazione in quei giorni, ma non sposò ciecamente l’antifascismo e riconobbe miti, ragioni e passioni anche ai fascisti.
Veneziani lo preferiamo, tuttavia, quando fa letteratura e si vede che il suo periodare diventa, fluido, sciolto, con punte di puro lirismo: la prosa è aulica.
Il mito, come noto, è alla base di due sue opere molto belli ed affascinanti “Nostalgia degli Dei” ed “Alla luce del Mito”.
E nel descrivere il mito vissuto da Pavese, vi sono molti rimandi.
Quello di Pavese era il mito nella sua accezione originaria, classica, esistenziale, tragica. Il mito era il paese, la campagna, la civiltà contadina, le ferie d’agosto, la dolce estate, i mattini radiosi.
“I mattini passano chiari
e deserti. Cosí i tuoi occhi
s’aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d’immobile luce.
Taceva. Tu viva tacevi; le cose
vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)
come un mare al mattino, chiaro.Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi”.
Era l’amore per i classici e per la letteratura, la nostalgia del mondo antico, esiodeo e omerico degli dèi.
La poesia non nasce dalla normalità delle nostre occupazioni ma dagli istanti in cui «leviamo il capo e scopriamo con stupore la vita».
La nostra vera libertà è quando usciamo dal tempo, cogliendo l’attimo estatico.
La virtù che il giovane Pavese si riconosce è «cominciare ogni giorno la vita – davanti alla terra, sotto un cielo che tace – attendendo un risveglio».
Bisogna valorizzare l’irrazionale. In esso vibrano i sentimenti più forti e schietti, la poesia deve esprimerli e mutare in forza mitopoietica.
Decisivo per il formarsi del mito è l’allontanarsi dalle proprie origini, dalle Langhe, dal paese, dalla terra natale. Perché la nostalgia trasforma la lontananza in mito. Al proposito resta indimenticabile quel che scrive Pavese: «Un paese ci vuole non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (La luna e i falò, il romanzo pavesiano che esprime meglio di ogni altro il suo realismo simbolico e nostalgico).
Il suo universo letterario e umano restò nell’aura del mito, dentro un orizzonte in cui la storia, il progresso, la dialettica, cedevano il passo al mistero, al simbolo, alla favola.
Il mito è una norma, un evento unico, assoluto e simbolico, con un nocciolo religioso – notò Pavese nel Saggio sul mito – che accade e riaccade sempre, in un continuo tornare all’origine.
La forza del mito è nella ripetizione, dunque nel rito: ciò che accadde una volta, riaccade ancora, come spiegò anche Eliade.
Mitico, per Pavese, è lo stato aurorale; i miti sono le immagini che balenano in noi, sempre le stesse per ciascuno di noi, in fondo alla coscienza, dove alberga una mitologia personale. Quando si fa poesia si attinge a quel nucleo originario, a quella ispirazione che è «febbre d’unicità», onnipresenza misteriosa che scalda la fantasia.
Pavese vi torna sempre come a qualcosa di unico, che simboleggia tutta la sua esperienza, Quel mito è «il foco centrale» non solo della sua poesia ma di tutta la sua vita.
Il mito è rifugio dalla realtà, riparo dalle sue miserie e dal suo vano trascorrere; a differenza dell’utopia non abolisce la realtà ma la vede sotto una luce diversa, ne svela la sostanza e coglie una rete di nessi, rimandi e significati. Perché il mito è universale e tocca ciascuno di noi.
Lo dice Pavese: «Non è da credere che in sé quest’esperienza del mito sia un privilegio dei poeti e, a un grado più discosto, dei pensatori. L’arte, la musica, la letteratura, il pensiero e la religione sono i luoghi del mito in cui ci rifugiamo quando la vita non basta, non dice abbastanza o va male. Si apre un mondo ulteriore, la mente scorge altri orizzonti e si fa eroica.
C’è qualcosa di giocoso nel mito. Un clima, un tono, un’energia ludica. Il mito è come la festa, irruzione gioiosa dello straordinario nella vita ordinaria, sospensione favolosa del tempo nell’evento speciale. È rito, incanto, sfida. Di questa visione ludica del mito c’è traccia nell’opera di Pavese ma la torsione finale è tragica: nel mito egli rielabora il lutto della condizione umana.
Il mito non ripara dal pensiero della morte, come dimostra la vicenda di Pavese, non offre soluzioni né panacee. Racconta, esplora, consola, rende concepibile la morte, rasserena il passaggio finale.
Secondo Veneziani per Pavese il mito è
“l’unico altro regno in cui rifugiarsi rispetto alla tragica realtà della condizione umana che poi lo spingerà al gesto, a lungo premeditato, di togliersi la vita. Il mito non è solo gravido di letteratura, insegna alla vita il destino; il mito fa vedere il mondo con altri occhi, sotto altra luce. Ma per lui non fu così, non vide il mondo con altri occhi, perché «verrà la morte e avrà i tuoi occhi».
E dopo aver visto il mondo alla luce del mito, si lasciò andare nell’ombra, sopraffatto dal buio”.
Marcello quando parla e scrive del Mito affascina tutti noi.
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