Letteratura
Vegetali
Le stagioni ritornano, non noi. Noi sappiamo
solamente invecchiare, ci è precluso il cammino all’indietro.
Ma gli alberi nel parco conoscono in che modo
vestiranno i rami secchi dell’inverno, e attendono
con fede il primo chiaro a marzo. Così loro premio
è il tenero verde, lo sbocciare di foglie timorose
già pronte allo squillo festoso dell’estate.
E non li spaventa il passare dei giorni,
l’arrivo di un autunno più mesto (beati, in tronchi e radici
hanno inciso il ciclo di rinascite durevoli).
Accettano la pioggia, il gelo di dicembre,
pronti alla replica dello spettacolo
di un anno nuovo, di un tempo ancora vergine,
improvviso, se pure posseduto; e poi dimenticato.
Nostra invece è una speranza ipocrita
di continuare a esserci, in altre sconosciute dimensioni,
diverse latitudini, smarriti in spazi cosmici
(ah come esistere, per chi, se non avremo più lo stesso viso,
la voce che qualcuno ha amato, le mani
a cui siamo abituati). In cosa potremo riconoscerci:
in uccelli rapaci, delfini, cinghiali siberiani,
o magari in ramarri, insetti calpestabili, microbi, amebe?
Preferibile allora un castagno in giardino,
con la dura corteccia, i frutti spinosi:
dietro al suo tronco si nascondono i bambini
giocando, si baciano i ragazzi,
e nei pomeriggi riarsi i vecchi raccontano
storie, contenti dell’ombra.
Sono ciechi, gli alberi, non osservano il mondo:
ma amano lasciarsi guardare nella loro
innocente bellezza, fiduciosa bellezza.
Ci salvano dall’ignoranza, offrendosi
nel verde tranquillo del loro costante equilibrio,
più essenziali di noi, più importanti.
Chiedono solo di continuare a esistere,
fermi nelle radici, fieri dei rami,
dei germogli di foglie, del vento
che li sfiora o li squassa, a cui
non oppongono alcuna resistenza.
Il vento si placa, anche la grandine.
L’albero ha atteso con pazienza; rigoroso, clemente.
Effimeri, i fiori; quelli recisi, in un vaso,
marciscono nel gambo, odorano di morte
in pochi giorni: pure così, feriti,
sprigionano una seria dolcezza nei petali
che sanno di spegnersi, superbi tuttavia
del dono improvvisato agli occhi di un amico.
Se un colore appassisce è un secco addio,
incolmabile lutto; vince il nulla,
il trasparente e vuoto. Troppo giallo,
o fucsia, o urlato l’arancione
di un tulipano! Ingiusta assurdità
la morte di un colore, di un fiore variopinto.
Il verde che resiste è quello del lichene, del muschio
aggrappato alle rocce, agli scogli; capace
di addolcire il terreno più asciutto, o l’arida
corteccia: di renderli indulgenti. Cerca un sostegno
severo, l’appoggio resistente del sasso; vi si adagia
materno, mollemente lo disseta, umida
coltre affettuosa, proteggendolo dalla troppa
durezza. Fedele sentinella, compassionevole
armatura – così difendesse ogni pensiero
dalla sua ferocia, l’umile muschio custode
della tenerezza.
Da Elegie del risveglio, Sigismundus, Ascoli Piceno 2016
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