Costume
Vecchiaccia: la prigione della vita eterna secondo Fuani Marino
Tutto comincia da un fatto personale, un evento “di minima”, per l’epoca contemporanea, la pubblicazione di un tweet. Siamo in piena pandemia e la scrittrice Fuani Marino pubblica una telegrafica riflessione sulle norme imposte dal lockdown. Poche lettere, scritte con la consapevolezza di una madre che osserva la figlia in cattività, fra dad e incertezze rispetto al domani, di una donna sopravvissuta a un suicidio e messa alla prova, da una condizione mai sperimentata prima dall’umanità, nel suo tentativo di sopravvivere al quotidiano.
“Stiamo sacrificando cose imprescindibili come il diritto all’istruzione, la socialità e infine l’economia di un paese in nome degli over 75”.
Un click e scatta il finimondo. Nel contesto stressato di allora, del quale così facilmente oggi sembriamo esserci dimenticati, Marino viene attaccata dalla rete, a cui ha dato il goloso pretesto di deviare la sassaiola dal runner di turno o dal passeggiatore seriale di cani. Da questo momento di scontro a mezzo social, esasperato dalla dinamiche claustrofobiche del tempo di Covid, prende il via la riflessione contenuta il “Vecchiaccia”, un saggio, edito Einaudi, finalmente libero dal politicamente corretto su ciò che è diventata la vecchiaia nella società di oggi.
Vecchiaia negata, fin nel lessico quotidiano, fatto di perifrasi come “terza età” e inglesismi alla “over”. Anziani che non abbandonano il posto di lavoro, imponendo un fermo forzato alla generazione successiva, se non costretti a termini di legge. Vecchi che non si rassegnano alla malattia e alla decadenza fisica pretendendo dalla scienza una risposta immediata, efficace, sicura ai problemi della senilità. Vecchi che non considerano l’esistenza della morte, di un tempo finito per la loro e altrui esistenza, e che nella negazione impongono un oblio sociale all’intera comunità.
Nel mancato ricambio generazionale ad avere la peggio sono le generazioni “di mezzo”. Non più giovani per l’anagrafe e la biologia, troppo giovani per avanzare pretese rispetto a quel futuro che sembra ancora appannaggio degli anziani. Marino raccoglie testimonianze dirette, tratte dalla sua esperienza, ma anche citazioni di autori, filosofi e pensatori che sulla questione si sono lungamente interrogati. Leggendo il libro sorge in modo dirompente una domanda sul nesso fra questo tipo di performatività cui i vecchi di oggi decidono (o sono obbligati?) di aderire e l’intero sistema capitalistico nel quale viviamo immersi. Marino non parla di capitale e produttività, ma risulta impossibile non ricordare il caso del governatore della regione Liguria Giovanni Toti che, sempre nel 2020, aveva parlato in una sua criticatissima uscita di “anziani non indispensabili allo sforzo produttivo del paese” per legittimare alcune limitazioni di carattere sociale e sanitario. Uscita profondamente infelice nel suo voler ridurre l’intero senso del vivere di un individuo alla sua produttività, oggettiva se si limita il valore di un individuo alla capacità di produrre. Allora le riflessioni di Marino sulla negazione della vecchiaia, sull’ossessione per il mantenimento di una posizione sociale – posizione che un tempo all’anziano era garantita in quanto memoria storica, valore a sé stante per la comunità, che lo trattava con un misto di cura e rispetto proprio in virtù degli anni lasciati alle spalle – diventa inevitabilmente una riflessione su un sistema che ghettizza l’inefficienza e la vecchiaia, che la tratta come qualcosa di osceno, ovvero da tenere lontano dalla scena. Il vecchio che riesce a competere nel mondo – continuando a lavorare, mantenendo un certo stile di vita, un certo aspetto, il più delle volte a costo di grandi sforzi o camuffamenti chirurgici – può, negando l’ultima fase della sua vita, restare all’interno del sistema. Chi non vuole o non ce la fa deve essere inserito in un percorso speciale, quello di cura e tutela, di progressivo venir meno della possibilità di scelta e autodeterminazione, in nome non tanto della sua tranquillità, ma di una rimozione generale.
In Storia della morte in Occidente, un testo cult che si interroga sul significato di quest’ultima dal Medioevo ai giorni nostri, Philippe Ariès parla di “morte proibita”, perché il sentimento che tanto caratterizza il nostro tempo è la “necessità d’essere felici, il dovere morale e l’obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva evitando ogni causa di tristezza o di noia, dandosi l’aria di essere sempre felici, anche se si tocca il fondo della desolazione”. Una riflessione mutuata da Geoffrey Gorer, che ha il merito di aver individuato per primo questo divieto, arrivando a vedere la morte come qualcosa di pornografico, che sostituisce il sesso nell’immaginario collettivo in quanto tabù
Se morire non è più possibile, se la morte di un ultra ottuagenario viene descritta come “prematura scomparsa”, cosa resta del concetto stesso di vecchiaia? Marino scoperchia le nostre paure in questo scritto, parlando anche e lungamente della malattia mentale, altra grande rinnegata del nostro tempo, inaccettabile nel suo essere – spesso insanabile e cronica, parte della vita, come l’invecchiamento. Inaccettabile perché non perfettamente produttiva, non perfettamente funzionale. Nella società di oggi, sembra suggerirci l’autrice, non c’è spazio per tutto ciò che non è sano, performante. La malattia mentale deve essere curata e risolta, occorre che il soggetto possa dire, a chi pone sempre la stessa domanda sulla sua condizione di salute, che sta bene, che è guarito, che è passata. La vecchiaia, come realtà immodificabile, non può più trovare quindi spazio, se non in una sua trasformazione radicale, a spese di ogni altra generazione e dei vecchi stessi. Sono tanti i temi che emergono in questo racconto: dall’ossessione dei figli per le vacanze degli anziani, costretti, più per lenire i sensi di colpa familiari che per oggettivo desiderio, a deportazioni indesiderate nei luoghi di villeggiatura, al bisogno assoluto che abbiamo di badanti e persone di servizio, unico appiglio che ci consente, quando possiamo permettercelo, di conservare una vita a fronte delle crescenti richieste del mondo del lavoro, del contesto sociale, della cura familiare. Tanti sono gli interrogativi, tutti urgenti, che il libro solleva, senza nessun ripiegamento nostalgico sul passato, su quando nelle famiglie allargate si stava meglio perché – e anche questo viene sottolineato – le donne spesso si sobbarcavano l’intero carico di cura oggi, almeno in parte, ridistribuito professionalmente. Un racconto disturbante, scritto con una prosa curatissima e attenta a ogni singolo dettaglio lessicale, perché ha il coraggio di dire quello che, almeno una volta nella vita, tutti abbiamo pensato, ricacciando poi più a fondo possibile quei pensieri. Un lavoro di ricerca minuzioso, di studio e preparazione, sorregge l’intero impianto del ragionamento, che scorre senza affettazione. Un elogio autentico e non fintamente godereccio – semmai estremamente sofferto – dell’assoluta necessità di un egoismo sano. Quello che salva dal finire schiacciati fra senso di colpa e senso del dovere e che rischia di portarci a diventare vecchiacci e vecchiacce senza rendercene conto, rimuovendo la certezza del tempo limitato a nostra disposizione e l’urgenza di farne qualcosa di buono per noi. Anche nulla, ma con la consapevolezza della finitezza che ci appartiene.
Fuani Marino, Vecchiaccia, Einaudi, pp. 160
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