Letteratura

Valerio Evangelisti e l’inquisitore Eymerich tra passato e futuro

10 Novembre 2017

Ispirato all’omonimo inquisitore catalano vissuto nel tredicesimo secolo, il Nicolas Eymerich di Valerio Evangelisti è stato una delle più memorabili creazioni della letteratura italiana recente, con buona pace di chi ancora non riconosce alla letteratura di genere la dignità e il valore culturale che meriterebbe. Esempio più unico che raro di villain protagonista – anziché antagonista – in una fortunata e longeva saga, Eymerich, a partire dalla metà degli anni 90, è stato il mezzo attraverso cui il suo autore ha prodotto una letteratura popolare ambiziosa e ricca di riferimenti, dalla fantascienza distopica al romanzo storico, chiave di lettura di una modernità carica di contraddizioni che dipinge ipotesi di scenari futuri ben poco rassicuranti. A ormai sette anni dalla sua ultima avventura, un lungo iato dovuto alle vicissitudini personali dello stesso Evangelisti e al suo voler esplorare e approfondire nuovi territori narrativi (la conclusione di una trilogia sui pirati caraibici, un ciclo dedicato ai braccianti romagnoli ambientato tra il Risorgimento e la metà del ventesimo secolo, Il sole dell’avvenire, tra le altre cose), Eymerich risorge (è questo, letteralmente, il titolo del nuovo lavoro): invecchiato, a tratti più umano, sempre spietato. Il suo creatore ci racconta i motivi che lo hanno spinto a riportarlo in vita.

Eymerich lo hai “ucciso” nel 2010 con Rex Tremendae Majestatis, in un periodo delicato della tua esistenza. Fortunatamente la situazione che ti aveva spinto a prendere quella decisione si è risolta, tanto che ora, a distanza di anni, hai deciso di farlo ritornare. Nel frattempo hai scritto libri e inaugurato ulteriori cicli romanzeschi, Eymerich avrebbe potuto essere un capitolo chiuso, niente rimpianti. E invece è appena uscito Eymerich risorge. Come mai e come mai ora? Erano rimasti dei conti in sospeso tra te e l’Inquisitore? O tra Eymerich e i suoi lettori?

Sono stati i lettori a pretendere il ritorno di Eymerich. Io lo avevo “messo a riposo” quando, dopo la scoperta di una grave malattia, non ero sicuro di poter vivere abbastanza per continuare a raccontare le sue avventure. Lo feci anche intuire durante una presentazione a Milano, causando sconcerto nei miei lettori più fedeli. In realtà io non ero “stanco” di Eymerich, come forse lo era Conan Doyle di Sherlock Holmes allorché lo fece precipitare in una cascata. Misi in pace il mio personaggio e mi dedicai a progetti di più breve respiro (la trilogia dei pirati, Il sole dell’avvenire, forse il più importante dei miei libri), anche per dimostrare che sapevo occuparmi d’altro. Una volta certo che sarei sopravvissuto, dopo terapie durissime, fu abbastanza naturale tornare all’inquisitore.

Come già nel romanzo precedente, Eymerich incomincia ad accusare alcuni quasi impercettibili momenti di debolezza. Questa volta però la “debolezza” sembra essere, più che fisica, dovuta ad una maggiore empatia nei confronti dell’umanità… Credi che il segreto della longevità di un personaggio stia nel modo in cui si evolve, pur restando se stesso?

Molte delle debolezze che attribuisco a Eymerich le constato su me stesso. Non è un percorso facile e senza danni, quello che ti sottrae alla morte, o la rinvia. Ci sono tanti problemi collaterali. A parte questo, che è epifenomeno, è vero, Eymerich si è un poco umanizzato. Tracce di questo processo evolutivo erano già sparse in altri romanzi, fino a divenire palesi ne Il castello di Eymerich. È chiaro che un personaggio sempre identico a se stesso, di avventura in avventura, rischia la macchietta. Si discosta dalla nostra esperienza quotidiana, che vede un’evoluzione. Affinché Eymerich vivesse, doveva cambiare, fermi restando i suoi connotati psicologici di fondo.

Qualche anno fa si è iniziato a parlare di New Italian Epic, e di “oggetti narrativi non identificati”. I tuoi libri rientrano agilmente in queste categorie, che probabilmente hanno pure contribuito a creare, anche se tu hai sempre rivendicato il tuo essere autore di “genere”, sottolineando come questa categoria, in qualche modo marginale da sempre, sia sempre stata, proprio in virtù di ciò, uno straordinario mezzo per poter raccontare la realtà. Credi che sia cambiato qualcosa nella mentalità degli autori, e forse pure dei lettori? Che ci sia un maggiore interesse nei confronti delle forme aperte, delle contaminazioni e dei punti di vista laterali?

Non amo essere incasellato in una “scuola”, perché poi ci si ritrova a fianco con autori con cui non si ha di fatto nulla a che fare. Nell’ambito del New Italian Epic teorizzato da Wu Ming 1, credo, con tutto il rispetto, di avere ben poco in comune con Roberto Saviano o con Antonio Scurati, per citarne un paio. Fermo restando che qualsiasi catalogazione è lecita, se può aprire sentieri interpretativi nell’odierna foresta letteraria. Da parte mia, tendo piuttosto a rivalutare una parte della cosiddetta “narrativa popolare”, capace di toccare tematiche di fondo che la letteratura con la Elle maiuscola non scorge nemmeno. Penso a buona parte della fantascienza dalle origini agli anni Settanta, al noir di Hammett e Manchette, ecc. Potrei fare decine di nomi. Quanto alla ricezione, dipende molto dai contesti culturali. Per esempio, H. G. Wells è ritenuto, nel mondo anglosassone, uno dei massimi scrittori della sua epoca, per quanto parlasse di invasioni marziane, di uomini invisibili e di macchine del tempo. Da noi non è ancora così. Io credo invece che il “romanzo popolare”, se consapevole delle proprie potenzialità, possa esprimere moltissimo. Anche se, su questo piano, noto sintomi pericolosi di regresso.

 

Le interferenze e i rapporti causali tra i diversi piani temporali, nel tuo ciclo, mi sono sempre sembrati una splendida metafora della ciclicità della storia, e di come gli eventi storici si ripercuotano sul futuro. In che misura la tua formazione di storico ha influenzato la tua letteratura?

Ha avuto un peso decisivo. Della ricerca storica ho mantenuto, nei limiti del possibile, la puntigliosità nella descrizione degli sfondi. Credo quindi di sottrarmi all’etichetta “fantasy” in cui spesso sono inserito (non che me ne importi qualcosa). Ma ho conservato anche la consapevolezza che determinati eventi possono avere cause remote e ripercussioni future. Senza sostenere, per questo, che la storia sia un ciclo che si ripete sempre uguale, un “eterno ritorno” alla Nietzsche. Al contrario, è un susseguirsi di traumi dalle conseguenze spesso imprevedibili, sul lungo periodo.

 

Una domanda un po’ personale sul valore catartico della scrittura. Eymerich nasce per certi versi come una sorta di personale esorcismo. Incarnava, quando è nato, alcuni tuoi aspetti caratteriali di cui volevi in qualche modo liberarti, o con i quali volevi comunque scendere a patti. Ha funzionato, ripensandoci a 20 anni di distanza?

Ha funzionato benissimo. Io sono cambiato, e in certa misura anche Eymerich è cambiato, in parallelo. Descrivere un personaggio simile a se stesso, o al proprio lato patologico, vuole dire guardarsi con attenzione allo specchio. È catartico, è liberatorio. Per usare termini d’attualità, è come creare una bad bank in cui confinare i titoli spazzatura. Anche la bad bank può comunque non essere condannata alla perdizione, e usare quei titoli secondo saggezza.

 

Hai già annunciato, visto il successo che sta avendo Eymerich risorge, un nuovo volume della saga. Abbiamo avuto romanzi di Eymerich anche molto diversi tra loro, alcuni molto elaborati concettualmente (mi viene in mente Cherudek), altri nei quali sono le azioni e gli intrighi ad essere preponderanti. Che tipo di Eymerich sarà il prossimo?

Non lo so, l’anima del romanzo esce durante la scrittura. Elaboro via via progetti che finisco con l’abbandonare, trascinato dalla dinamica della storia. Dipende anche dalle letture che faccio in corso di stesura, dalle idee che mi suggeriscono. Se qualcuno leggesse i miei appunti iniziali su Eymerich risorge, si accorgerebbe che la vicenda avrebbe dovuto essere ambientata a Praga. Non è stato così. Ho descritto i primi gesti dell’inquisitore e in seguito è lui che ha trascinato me, su un itinerario totalmente differente. Capita ogni volta. Non so se sia la regola generale, ma è la mia personale esperienza.

 

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