Letteratura

“Urania d’agosto” di Calamaro e Iodice, un finale di partita sotto le stelle

29 Marzo 2018

“Urania d’agosto” o del male di vivere secondo Lucia Calamaro. Davide Iodice, uno dei più creativi protagonisti della scena contemporanea, firma una accurata e premurosa regia per il nuovo testo dell’autrice de “La vita ferma”, traducendolo in uno spettacolo dove il consueto fiume di parole della scrittrice premiata con l’Ubu lo scorso anno, sempre denso di significato, dai motti allusivi e concatenati tra loro come un gioco di matrioske, stavolta sembra fluttuare in una dimensione liquida dove tutto è rallentato e galleggia in uno spazio senza gravità. Esistenze prossime al grado zero, dove lo sprofondamento, fotografato nel suo procedere quotidiano, è lento ma inesorabile come una goccia cinese. Un progressivo spaesamento che coincide con il degrado e la perdita del senso. Urania, interpretata, nell’allestimento prodotto da Sardegna Teatro, in modo ispirato e straniata enfasi dall’attrice Maria Grazia Sughi, donna perduta in un proprio universo rifugio, fatto di decine di letture di romanzi di fantascienza, cancella i confini dei racconti di un Philip Dick o Brian Aldiss, per vivere a tratti intermittenti dentro una realtà deformata.

“Sono in crisi _ rivela Urania _Sono giorni così, momenti. Mi perdo. Di colpo vorrei non essere dove sto. Mi sembra tutto sbagliato, tutto brutto, tutto estraneo. Mi guardo tirare avanti, perché non é che ve lo posso dire. A chi le puoi dire certe cose? Mi guardo da fuori e spero che mi passi presto; ma francamente, faccio finta, fingo di essere qui. Non si vede? Meglio allora, tanto meglio”.

Maria Grazia Sughi in “Urania d’agosto” (fotografia Alessandro Cani)

Quello della protagonista è un doppio salto verso uno stato di alterazione mentale vissuto in uno spazio minimale illuminato dalla luce azzurrognola di Urano. Un freddo e anonimo letto ospedaliero, un tavolo disadorno, due sedie e uno schermo da dove pulsano conturbanti immagini in movimento di galassie e pianeti. Frammenti visivi di altri mondi proiettati e interiorizzati, cuciti sotto la pelle da colei che non riesce a mimetizzare le cicatrici di un malessere interiore.

Quando la vita scivola via la solitudine produce spesso alienazione. Urania, avanti negli anni, una massa di capelli biondi e arruffati, avvolta in una vestaglia fucsia, civettuola e demodè, vaga così, come se anche lei fosse un cosmo, dentro codesto scenario simile ad un acquario: un universo lacerato e sospeso. Attaccata a un pelouche neanche fosse la coperta di Linus, vomita la propria delusione e amarezza nei confronti del mondo, lontana e insensibile anche alle incursioni di una giovane _ infermiera, badante o figlia _, unico punto mobile della pièce, una caleidoscopica ed efficace Michela Atzeni che di lei si occupa con discrezione e affetto. Anzi è quasi angelica: strumento di Iodice stesso che, in molti suoi lavori _ come ha segnalato il critico di “Repubblica” Giulio Baffi _ avvolge di malinconica pietas i suoi personaggi: ultimi e derelitti, homeless, anziani e disagiati. Quasi volesse prendersi carico di ogni fardello fino all’ultimo scampolo di vita vissuta. Ed è così un sofferente e strisciante corpo a corpo quello che si disputa in scena tra la donna anziana e la giovane, con quest’ultima sempre più nel ruolo del servo di scena di un finale di partita.

Michela Atzeni e Maria Grazia Sughi in “Urania d’agosto” (fotografia Alessandro Cani)

Anzi, di diversi finali di partita fotografati uno dietro l’altro, in una sorta di coazione a ripetere: stesso rito per itinerari diversi. Non sono precisi e particolareggiati, ma appena abbozzati, schizzati velocemente da un ritrattista che disegna su un grande foglio di carta bianco servendosi di un carboncino nero fumo. Pochi segni, spigolosi, veloci e taglienti restituiscono un’immagine al nerochina, costruita da forti e indefiniti contrasti.

“Io non credevo. Non sapevo che i ricordi potessero finire… Esaurirsi. Svuotarsi. Diventare estranei. Le persone sì… A forza di trattarsi poco e male, si diventa sconosciuti. Ma i miei ricordi… Erano miei. Ero io. Cosa è successo?”

“Urania d’agosto”, in simbiosi Iodice-Calamaro, è la percezione del mutamento, il racconto dell’attimo che precede il divenire ultimo del tempo. Lo stesso che riprende poi circolarmente, senza soluzione di continuità, nel lungo girotondo di Urania che a bordo di una piccola moto per disabili misura il palcoscenico guidando costantemente in semicerchio, mentre alle spalle un cosmonauta vestito di bianco suona solitario un violoncello.

Maria Grazia Sughi in “Urania d’agosto” (fotografia Alessandro Cani)

Dopo essere andato in scena come primo studio a Firenze, Roma e Napoli e debuttato al teatro Massimo di Cagliari e al teatro Officina di Caserta “Urania d’agosto” riprenderà la tournèe ai primi di agosto da Granara.

Luci: Loic Francois Hamelin. Scene: Tiziano Fanio. Costumi: Daniela Salernitano.

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