Letteratura
Uova fatali
Uova fatali (“Rokovye jaika”, 1925) è uno dei racconti più noti di Michail Bulgakov (1891-1940), lo scrittore russo prematuramente scomparso il cui capolavoro incompiuto, Il Maestro e Margherita (“Master i Margarita”, 1928-1940), rimase “nascosto” fino alla seconda metà degli anni Sessanta e venne pubblicato per la prima volta all’estero soltanto nel 1973.
Con il regime sovietico Bulgakov ebbe un rapporto altalenante: sicuramente stimato e considerato da Stalin (che nel 1930 lo salvò dall’indigenza, offrendogli un posto di aiuto-regista e sceneggiatore al Teatro d’Arte di Mosca, senza per questo smettere mai di tenerlo d’occhio), subì per contro un accanito ostracismo da parte della intellighenzia più astiosa e settaria. Geniale e prolifico libero pensatore, Bulgakov lottò vanamente tutta la vita per conquistarsi un “posto al sole” in un Paese e in un momento storico di traumatici, improvvidi e anche sgangherati mutamenti, che spesso evocò – camuffandoli – nella sua drammaturgia e nella sua narrativa, popolate di personaggi e di situazioni apparentemente incredibili e improbabili, eppure (dato che il tempo – almeno esso – è galantuomo) profondamente veri.
Scrive lo slavista Igor Sibaldi:
Era mosso, Bulgakov, da uno straordinario orgoglio, testardo. Amava la sfida. E la sua sfida fu, fin dagli esordi, la voglia e la consapevolezza di essere uno scrittore grande e raffinato in un’epoca di scrittori terrorizzati, cortigianeggianti e costretti – dalla paura – al conformismo più grossolano. I suoi primi successi letterari – tra il ’24 e il ’26 – furono tutti controcorrente: La guardia bianca, un romanzo incentrato su una magnifica, eroica famiglia di controrivoluzionari; Diavoleide, racconto fantastico-satirico sulla burocrazia imperante; Uova fatali, parodia di uno di generi letterari allora favoriti dal regime – le celebrazioni romantico-avventurose del progresso scientifico al servizio dell’economia sovietica. Dopo d’allora satira e parodia divennero la sua vocazione.
Formatosi come medico, Bulgakov abbandonò ben presto questo lavoro per provare a vivere di sola letteratura nell’Unione Sovietica fin dai primi anni Venti: obiettivo ambizioso di per sé, ma pressoché irrealizzabile senza inaccettabili compromessi. Se gli riuscì di appendere il camice bianco all’attaccapanni, non poté però sbarazzarsi del suo formidabile occhio clinico e della sua passione per il microscopio Zeiss, fedele compagno anche del protagonista di Uova fatali: nella sua esperienza di scrittore immaginifico questi si traducono sovente in sogni premonitori e visioni inquietanti, in cui il registro del grottesco si espande sbrigliato e impertinente.
Così come l’illusione ottica è tanto più ingannevole quanto più facilmente può essere smascherata a bocce ferme, lo scarto fra realtà e fantasia nei soggetti di Bulgakov si innesca quasi di soppiatto e cogliendoci perlopiù impreparati: una volta fatti ostaggio della malìa della deformazione, Bulgakov può abusare di noi facendoci magari ridere a crepapelle della nostra medesima (e inconfessabile) pruderie, mettendo a nudo i nostri piccoli e grandi difetti.
Anche se siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, è pur vero che il sonno della ragione genera mostri: e l’incubo raccontato in Uova fatali difficilmente potrebbe dissolversi se non intervenisse un gelo agostano, inverosimile ma provvidenziale non meno dei microrganismi contenuti nel sangue umano che finiscono per uccidere i tripodi invasori della Terra ne La guerra dei mondi (“The War of the Worlds”, 1898) di Herbert George Wells (1866-1946), modello dichiarato di Uova fatali. È infatti un’ondata di freddo polare estivo a far perire tutte le creature abnormi e assetate di sangue, diventate tali per l’uso in apparenza scientificamente fondato – ma in realtà incauto – del raggio rosso, scoperto per caso una sera di aprile del 1928 (siamo nel futuro prossimo venturo) dal professor Vladimir Ipat’evič Persikov, “professore di zoologia alla IV Università di Stato e direttore dell’Istituto Zootecnico di Mosca”. Persikov di primo acchito sembra un uomo tutto d’un pezzo e invece basta che arrivi a bussare alla porta del suo istituto un funzionario della Direzione Politica di Stato (GPU) e lui subito depone le armi, seppur bofonchiando. Il funzionario si chiama Aleksandr Semënovič Rokk e “rokk” in russo significa “destino”: sembra quasi la parodia della Quinta Sinfonia di Beethoven, con il suo famoso incipit di quattro note che rappresentano proprio “il destino che bussa alla porta”.
Good Mood ha fatto di Uova fatali un audiolibro molto ben realizzato.
Non è un caso che uno dei motivi musicali ricorrenti nel corso della narrazione sia costituito dai suoni SOL-MI-LA, che rimandano ai tre suoni su cui si basa tanta musica popolare infantile di tradizione orale. Nella sonorizzazione dell’audiolibro, però, questi tre suoni vengono usati per dar vita ad una musica tensiva che, dei bambini, sembra raccogliere soltanto un tratto importante nell’economia del racconto: la dimensione ludica (e in effetti i suddetti suoni spesso sono alla base di canti per giocare). Persikov, in fondo, si emoziona come uno scolaretto quando scopre il misterioso potere del raggio rosso e, proprio come un bambino imprudente, non riesce a governare la cosa e si lascia prendere la mano: così il giocattolo nuovo che lo fa sentire depositario di una scoperta straordinaria e avvincente finisce per ritorcerglisi contro, decretando in ultima analisi la sua fine ingloriosa e prematura.
Inoltre, due espliciti riferimenti musicali si trovano nel corso del racconto: il primo, fuggevole e indiretto, alla moglie di Persikov, che lo aveva lasciato nel 1913 per andare a stare con un celebre tenore; il secondo, esteso e circostanziato, allo stesso Rokk che fino al fatidico 1917 “suonava alla perfezione” il flauto in un’orchestrina da cinematografo e di questo campava, prima di cambiare mestiere sull’onda travolgente della rivoluzione. Una sera, in corrispondenza di uno dei momenti più drammatici e sconvolgenti del racconto, Rokk rispolvera il flauto e si mette a suonare prima un’incantevole aria da La dama di picche e poi, indossando i panni di un novello fachiro, un valzer dall’Eugenio Onegin di Čajkovskij. Dario Barollo, responsabile per l’audio editing e il sound design di questa produzione, ha qui una trovata geniale: invece di citare le suddette composizioni, sostituisce il flauto traverso con un flauto diritto di plastica da cui un principiante tenta di cavare qualche suono e ci riesce malissimo. La musica, così, esiste solo per sottrazione e Rokk risalta nella sua attuale inanità, che il passato non riesce a dissimulare. Manco a dirlo, l’effetto nel contesto è patetico ed esilarante a un tempo.
Fin qui la musica. Ci sono però anche gli effetti speciali sonori e Barollo, come sempre, non si risparmia: persino i rumori dei motori di un’automobile e una motocicletta sono quelli, realistici, di automezzi originali degli anni Venti; ma c’è molto altro ancora, compresi i versi di anfibi di varie specie e lo scricchiolare delle ossa della malcapitata Manja, moglie di Rokk (interpretata dalla sempre brava Lucia Angella, abile nel conferire al suo personaggio tratti scopertamente infantili che ben gli si addicono), la quale muore stritolata da un serpente gigantesco.
Silvano Piccardi è un narratore che resta saldamente ancorato al registro espressivo del divertissement anche quando gli eventi descritti sono tutt’altro che leggeri; Giancarlo De Angeli, popolare speaker della comunicazione pubblicitaria, si rifà fedelmente alla descrizione di Persikov fatta dallo stesso Bulgakov (“Parlava con voce stridula, acuta, gracchiante”) ma costruisce un personaggio più profondo e chiaroscurato di quanto ci si aspetterebbe, praticamente tutto in falsetto; Marco Zanni è Rokk in tutta la sua ambivalenza, frutto di una rivoluzione riuscita ma fallimentare di cui è vittima inconsapevole quanto zelante esecutore.
L’adattamento e la riduzione del racconto sono ancora una volta a cura di Paola Ergi, che continuiamo ad ammirare per la sua capacità di sceneggiare testi diversissimi sempre con risultati che non fanno per nulla rimpiangere l’originale.
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