Letteratura

Una storia a ingloriosa fine. “L’inverno dei leoni” di Stefania Auci

21 Giugno 2021

Com’era prevedibile, dopo i “Leoni di Sicilia”, il romanzo che ha registrato un immenso successo di pubblico collocandolo fra i libri italiani più venduti di tutti i tempi, anche “L’inverno dei leoni”, il secondo romanzo con cui Stefania Auci conclude la saga dei Florio, si avvia decisamente sulla stessa strada.

Molti attendevano l’autrice alla seconda prova, si chiedevano infatti se sarebbe riuscita a mantenere il ritmo che ha agevolato il successo del precedente volume, qualcuno sperava perfino in un flop, ebbene, possiamo dire che è andata oltre, che ha regalato ad un pubblico particolarmente interessato un’opera, se non pari, addirittura migliore della precedente.

Le vicende pubbliche e private della famiglia Florio dall’unità alla fine degli anni venti del secolo, argomento del racconto, coincidono in gran parte con le vicende della stessa storia siciliana cosicché il fatto stesso che se ne parli può indurre nell’equivoco di leggere “L’inverno dei leoni” con l’occhio severo dello storico.

In realtà, e la stessa autrice mi pare lo confermi, si tratta di un’opera letteraria, di un romanzo capace, in alcuni passaggi significativi, di coinvolgere il lettore ma non certo, nonostante non manchi lo sforzo di un puntiglioso inquadramento storico, di un’opera scientifica.

Prendendo atto di questa pur banale verità, possiamo aggiungere che quest’opera, il cui obiettivo – ma credo che sia l’ambizione di ogni scrittore – è di raggiungere un pubblico assai vasto offrendo nel contempo non solo occasione di divagazione ma stimolo di riflessione, non poteva che utilizzare quegli specifici registri narrativi. In poche parole, “L’inverno dei leoni”, come i “Leoni di di Sicilia” non poteva essere scritto altrimenti che non nel modo in cui è stato scritto.

Apparentemente potrebbe, dunque, essere visto come una fiaba, con qualche caduta di ritmo, che però non regala, come tutte le fiabe, un lieto fine.

E’ infatti un racconto che segue un percorso, in troppi casi verificato, dalle stelle alle stalle ricalcando quel modello classico per cui la prima generazione costruisce le fortune, la seconda generazione le consolida, la terza le dissolve riducendo in molti casi in miseria chi aveva avuto la fortuna di ereditare tali imperi economici.

Con le dovute differenze, e non storcano il naso i benpensanti, il pensiero va ai Buddenbrook, il capolavoro di Thomas Mann che il grande scrittore tedesco pubblicò all’età di ventisei anni.

E a richiamarlo c’è anche una buona ricostruzione delle condizioni sociale di quella Sicilia del periodo in questione, ed in particolare di una borghesia che non riesce a fissare orgogliosamente la propria identità e aspira solo a ripetere i modelli formali della vecchia aristocrazia.

Come c’è una non insufficiente introspezione psicologica dei personaggi di cui Mann è stato maestro. A cominciare da Ignazio Florio jr., che si trova giovanissimo ad ereditare un impero economico , senza averne la giusta maturità per governarlo, per cui appare schiacciato dal confronto con la figura del padre che invece l’aveva saputo fare.

L’autrice ne disegna bene il profilo, a cominciare dal suo orgoglio dell’appartenenza, cioè del portare quel nome Florio onorato e riconosciuto come simbolo di successo economico e sociale a livello di opinione pubblica internazionale.

Ma anche i limiti che lo contraddistinguono, la realtà di un uomo dominato dalle pulsioni, che non sa resistere ai richiami dei piaceri carnali per soddisfare i quali è pronto a dilapidare fortune. Un personaggio che già dall’avvio porta il segno della sconfitta.

E poi, donna Franca Florio, una aristocratica decaduta, che sogna di vivere alla grande e che nelle attenzioni che le presta il giovane Ignazio, che la sposerà più per capriccio che per amore, scopre lo strumento per realizzare i suoi sogni.

Una donna che entrata in casa Florio anche, e forse soprattutto, per realizzare il sogno della ricchezza e del lusso, può permettersi tutto e si permette tutto, una donna che vive alla grande pensando che dal sogno non si sveglierà mai.

Una donna ferita dalla perdita nel giro di pochissimo tempo di tre figli, evento che la turba profondamente ma non fino al punto di farla rinunciare ai piaceri che la sua condizione le permetteva di soddisfare.

Una donna che scambia la propria dignità, sopporta cioè i continui tradimenti del marito, con superfluità e i piaceri che la ricchezza può offrire.

Una donna, ed è questa una delle pagine più belle del libro, che in un momento drammatico, quello del furto dei suoi favolosi gioielli, rivela di amare più quelle gioie che le sue stesse figlie.

Ma anche il contesto ambientale, un mondo che senza accorgersene scrive, una dopo l’altra, le pagine della sua fine che è anche la fine del sogno di una Sicilia diversa da quella che conosciamo, cioè di una Sicilia che finalmente avrebbe potuto cogliere i segni della modernità invertendo la spirale di parassitismo e sperpero di risorse che, purtroppo ne ha segnato la storia.

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