Letteratura
Una famiglia di geni fottuti
Conrad, Melville, Bukowski, Faulkner intossicato dal whisky, Hemingway con il cervello che fuma dopo le due cannonate che gli hanno sbriciolato le tonsille. Una cinica masnada di geni fottuti, la famiglia dello scrittore Cosimo Argentina. Testo: Cosimo Argentina.
Joseph Conrad
In un sito dedicato alla cattiva scrittura bukowskiana possiamo millantare frequentazioni assidue con calibri distruttivi e politicamente ben più che scorretti.
Possiamo giocarcela di sponda con Joseph Conrad, che prima di diventare un gentiluomo deve aver giaciuto con numerose puttane malesi in porti assediati da peste lebbra e sifilide. Da marinaio testosteronizzato deve essere franato tra le gambe scure e lisce, ma con il delta limaccioso e tantrico in bettole adiacenti stazioni di scambio lungo fiumi inaccessibili, almeno sul finire dell’800. Ha tirato fuori simboli ignoti. Nel suo racconto Gli Idioti mi racconta di una famiglia che partorisce a raffica scemi da villaggio. In Un Avamposto del Progresso mi mette a parte di una cazzo di stazione fluviale dove due bianchi pazzi e accidiosi aspettano un battello che non arriverà mai. Il negro ai loro ordini vende una dozzina di uomini, dei portatori, a dei cannibali trafficanti di schiavi in cambio di alcune zanne di avorio. Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski dava del tu all’orrore a alle tenebre e non credo proprio avrebbe biasimato Francis Ford per aver scelto un figlio di puttana del calibro di Marlon Brando per impersonare Kurtz, sebbene anche la versione di John Malkovich potrebbe essergli finita sott’all’osso. Schizzi di acqua salata, la peggiore, quella degli oceani, soprattutto quello Indiano. Sputi con grumi di sangue finiti nel fango degli argini e nella sabbia dunica e benefattrice, questo il suo mondo remoto.
Sì, ho frequentato Conrad e continuo a farlo. Uno di famiglia, da queste parti. A volte se ne viene qui da me sottobraccio al negro del Narciso. Un bestione malato e coperto da scaglie gibbose frutto di qualche stregoneria daiaka. Altre volte sono io che gli vado incontro. Lo becco quasi sempre intorno a un fuoco con i cacciatori di teste che commentano le ultime segate. O a prendere il tè in una Londra di inizio 900, con le garze infette a proteggergli l’uccello e la scarnificazione su un braccio a deletare tatuaggi irriverenti. Ultimamente mi ha trascinato in una laguna fatta di paludi e spiriti del male. Lì, issati su una palafitta gialla e cadente, mi ha presentato a una coppia di malesi. Lei febbricitante e visionaria e lui silenzioso e spesso. Gli faccio, ehi, Joseph, la ragazza se la passa male. Deve essersi beccata una fascinazione. Gli spiriti della foresta là in fondo, oltre la laguna, mi risponde un Conrad corrucciato, le hanno instillato il male finale, il maligno compulsivo se l’è venuta a prendere. Vede cose che noi non vediamo e non per questo meno reali. Frutto di una dimensione a te e a me ignota.
Henry Charles Bukowski
Mentre ce ne stiamo lì in ginocchio davanti alla pre morte della ragazza una chiatta di carico si avvicina dopo aver imboccato il canale che congiunge il fiume e la laguna.
È quel figlio di buona donna di Hermann che siede con un arpione sulle cosce straziate di cicatrici.
Chi diavolo è? Mi domanda Conrad. Tranquillo, socio, è Melville, un tuo contemporaneo. Credo abbiate solcato gli stessi mari in momenti vicini. Solo che tu alla fine ti sei dato alla nueva borghesia europea mentre lui è caduto in disgrazia ed è finito in una dogana a contare i sacchi pieni di merda e granturco.
I ramponieri di Melville ci osservano con minacce serigrafate nelle pupille. Un altro coguaro. Un altro vecchio amico. Io non sarò Nathaniel Hawthorne e sono nato a Taranto piuttosto che a Salem, ma il rum con il padre putativo della maledetta Balena Bianca l’ho bevuto qualche migliaio di volte ed è stato piacevole, sì, piacevole ascoltare i suoi racconti riguardo alla follia autodistruttiva del capitano Achab. Il suo tormento fatto di legno e innesti nei tendini morti di un arto inservibile. Ho sottaciuto la mia ansia peregrina nell’ascoltare le vicende a cavallo di una bara di Ismaele o la paranoia delegittimata di un Bartleby ingobbito su uno scrittoio in uno studio legale in avanzato stato di decomposizione. Ma gli sono andato dietro come un cane rognoso in cerca di ossi quando mi ha presentato il suo uomo di fiducia. Un mutante che si è imposto di navigare tra i flutti di fiumi memorabili e non per questo meno amari degli scogli del Capo di Buona Speranza.
William Faulkner
Sicché ecco due grossi carnivori, due degenerati figli di puttana che Buk avrebbe volentieri preso dentro in una bevuta memorabile. Già me lo vedo il tavolo numero sette di uno degli squallidi bar di East Los Angeles. Buk ubriaco e offensivo, Melville cotto nel rum, Conrad a pieno regime nei distillati e a capotavola un Hemingway che non si tira mai indietro quando è tempo di bere e al vertice opposto William Faulkner intossicato dal whisky che cerca di rimuovere un ago dal braccio di un Bill Burroughs a secco di colpi nel tamburo della sua colt.
Una cinica masnada di geni fottuti, la mia famiglia, i miei cari.
Ernest ha ancora il cervello che fuma dopo le due cannonate che gli hanno sbriciolato le tonsille. Faulkner preso tra il rimorso di aver sverginato una liceale servendosi di una pannocchia e il letale dolore al cranio per aver guardato la morte di Addie imboscato in una caldaia arrugginita con una carriola rovesciata a fargli da scrittoio. Bill Burroughs che si strappa di dosso la scimmia ipodermica e rilascia un peto cut up in grado di risuonare in tutta Tangeri. È il suo segnale, lo scatenamento di un inferno parallelo inviso a Paul Bowles, un geniale bocchinaro che rimase fedele a sua moglie Jean Auer (non è tarantina, è una yankee) una leccatrice di fica magrebina da cabala.
Gran bella tavolata! E se non fosse un misantropo con i lineamenti da replicante androide porterei a sorseggiare agua caliente anche quell’acido confratello di Cormac McCarthy. Ma si sa che è uno che ama tenersi a distanza dal genere umano, il padre di Meridiano di sangue.
Lascio fuori dal consesso anche il febbrile Louis Ferdinand Céline, un astemio che irrideva gli alcolizzati e il misticoide Philip K. Dick che nel suo oscuro scrutare mondi paralleli nati ed estinti solo e soltanto nella sua mente alienata proverebbe a innaffiare di benzedrina il cupo conclave. Tengo fuori anche Franz la blatta. Più a suo agio in fortezze senza entrata e via di uscita o davanti a corti liquide da santa inquisizione boema, il re dei Carpazi, l’esoterico Kafka lo lascio volentieri a chiacchierare con il mutevole e microcosmico Fernando Pessoa. Due cappotti nella nebbia, quei due. Due latrati di immenso talento che restano tra i pochi a poter dare del tu a Fëdor l’infinito fattosi inchiostro.
Cormac McCarthy
Questa più o meno la mia famiglia, quelli che amo, a cui voglio bene, che frequento in bettole pregne di umidità o in assolati bar all’aperto ai margini di boschi senza sponde. Gente che ha lottato e non ha fatto prigionieri nell’istante in cui è scesa in battaglia. Guerrieri di una stirpe di purosangue che hanno saputo scuoiare gli scalpi a lettori imbelli e invece segnare coi vessilli araldici tutti quelli che hanno saputo comprendere. Il Golgota letterario come un immenso campo di sterminio, ai miei occhi cisposi. Guerra chiama guerra, per citare quel deforme di Frank Miller.
E, come ci ricorda uno dei padri fondatori della letteratura mondiale, i nostri soldati ne uccisero tanti quanti gliene permise la durata del giorno… chi era costui?
Louis-Ferdinand Céline
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