Letteratura

Un regalo per Natale

17 Dicembre 2022

Ero lì da alcuni giorni. Custodita con efficienza, certo, ma forse con qualche indifferenza. Dai vetri notavo un perpetuo viavai di macchine, un inarrestabile movimento di passanti. Pioveva, ombrelli aperti, pozzanghere. Qualcuno si avvicinava a guardare dentro, si fermava un po’ soppesando le idee – chissà, forse su di me, forse sull’interno dell’ambiente; a volte scuoteva la testa, a volte commentava con un vicino, sempre sull’orlo di una decisione: prendere o lasciare.

Improvvisamente quel giovanotto (già si era riavviato, dopo avermi squadrato ben bene. Ma era veramente me che contemplava esitante?) tornò sui suoi passi, spinse la porta ed entrò. Mi diede di nuovo un’occhiata veloce: sentii muoversi qualcosa nei miei capillari, quasi il suo piombare nella stanza fosse un avvertimento diretto a me, a me sola. Aveva un cappotto grigio scuro, a quadri, stretto in vita da una cintura, un cappello borsalino, una sciarpa viola.

Prima di rivolgersi alla signora, tornò a guardarmi da vicino, gettò una sbirciata rapida alle mie amiche, di una sfiorò la chioma con dita leggere, ad un’altra afferrò saldamente il braccio. E quelle: zitte, solo un brivido, un tremolio sembrò scuoterle un momento. Se avessi potuto, sotto i suoi occhi indaganti, mi sarei ritirata in me stessa, invece svettavo sfrontata, provocavo nei colori, più sinuosa e bella che mai.

Lui mi indicò deciso. La signora mi si avvicinò, cominciò a lodarmi esaltando le mie bellezze ad una ad una. Mi osservavano, se pure con diverse intenzioni; il peso del loro giudizio mi rendeva muta e incapace di pensare, di manifestare qualsiasi sentimento che non fosse il timore, o una speranza confusa e silenziosa. Lui sfilò il portafoglio: non riuscii a vedere quante banconote ne estrasse. Prese la penna che lei gli porgeva, scrisse veloce qualcosa su un biglietto.

«Per quando?» la sentii chiedere. E lui rispondere: «Domani».

Era quasi sera. Arrivò il buio senza che nessun altro entrasse. C’era, tra di noi, molta eccitazione. Parecchie, l’indomani, sarebbero partite. Ci diedero da bere, a tutte. Alcune erano state sistemate in basso, una addossata all’altra, tra carte spiegazzate sul pavimento di marmo, coltelli, pezzi di spago, due o tre fiori scipiti. Una gran confusione, odore di traspirazione rancida. Io, più fortunata, avevo a mia disposizione una panca, con sotto dei fogli di giornale che, concentrandomi un po’, avrei potuto leggere per passare il tempo. Invece spensero la luce, il buio aiuta a diventare più belle. Ognuna di noi rimase in silenzio con i suoi pensieri. Potevamo continuare a guardare fuori, attraverso i vetri: le macchine si erano diradate, ma pioveva sempre. Ineluttabile, irrefrenabile pioggia natalizia.

Nella piazzetta di fronte, un albero di Natale fasullo, di cartone rosso con tante decorazioni bianche (palle, fiocchi di neve, collane di plastica intrecciate), si illuminava a intermittenza. Ero troppo stanca per addormentarmi, troppo agitata al pensiero di quello che mi sarebbe successo l’indomani. Cercavo di ricordare i lineamenti del mio giovane signore e padrone, mi sforzavo di ricostruire i suoi occhi, costringevo le sue labbra a pronunciare il mio nome. Troppo retorico, mi era sempre sembrato, ma detto da lui mi appariva in tutto il suo luminoso splendore, nella sua orgogliosa e consapevole superiorità. Dove mi avrebbe portato? Con che mani amorose e tenere mi avrebbe accarezzato? Di quali e quante attenzioni mi avrebbe riempito, d’ora in poi, l’esistenza? Immaginavo la casa in cui sarei vissuta, le pareti chiare con pochi quadri astratti, le finestre ampie, i tanti libri: che lui fosse una persona colta, di ottimo gusto, non c’era alcun dubbio. Si vedeva da come vestiva, dal modo sicuro in cui si muoveva, dal tono di voce calmo e deciso.

Così, mentre riflettevo e sognavo, bevevo lenta il cocktail serale che la signora ci aveva preparato, sentendomi invadere da un veleno dolce e potente che mi confondeva le idee, mi cullava in uno stordimento infido. Avvertivo le altre respirare piano; una, forse, piangeva.

Passammo la notte in questo modo; ricordo confusamente l’urlo di un’ambulanza chissà a che ora, la sua luce azzurrina illuminare per un attimo il soffitto. Il mattino dopo arrivò con un nuovo chiarore che invase improvviso la stanza, pulì ogni angolo dalle ombre, riportandoci alla vita. Ci stiracchiammo pigre, osservandoci rinascere, tremanti di freddo e di inquietudine, sussurrando parole che fossero di incoraggiamento e di augurio reciproco. Un furgoncino frenò proprio davanti all’ingresso. Ne uscì un ragazzotto che tante volte avevo visto sgridare e strattonare dalla padrona: aprì la porta, lasciando entrare aria fredda e pulita, sventolandoci sadico e provvidenziale. Si tolse il giubbotto, visibilmente scocciato di essere lì; cominciò a spazzare brusco per terra, raccogliendo i fogli di giornale sparsi, mettendo un po’ d’ordine. Poco dopo arrivò la ragazza che chiamavano truccatrice, quella che si occupava del nostro aspetto fisico, detergendoci con batuffoli e forbicine e pinzette, infiocchettandoci. Iniziò subito l’opera di restauro: scambiava battute annoiate col ragazzo, mentre afferrava le prime tra noi. Ci sentivamo alla loro mercé, incapaci di una qualsiasi reazione. Quando fu il mio turno, lei mi stazzonò un poco, mi spruzzò di una magica essenza, velocissima creò un ornamento prezioso (oro e argento intrecciato), aggiustandomelo intorno.

«Stella è la più bella», la sentii che faceva i complimenti a se stessa più che a me. Mi fornì di un impermeabile trasparente perché non mi bagnassi, consegnandomi al giovane tuttofare che di malagrazia mi spinse con altre amiche sul furgone. Partimmo così, strette una all’altra, senza un saluto affettuoso da parte di chi ci aveva custodito per tanto tempo. Il ragazzo guidava veloce, con frenate violente e inattese, quasi cercasse in tal modo di svegliarsi del tutto, con lo stridio delle ruote, il sobbalzare dei muscoli a ogni sterzata più dura. Noi ci puntellavamo strette, sfrusciandoci e sgualcendoci a ogni contatto, studiandoci con gli occhi la paura e il desiderio di scendere. A chi toccasse per prima, a chi dopo, al calvario di attesa dell’ultima. Il mio turno arrivò presto. Il furgoncino sbandò sulla sinistra, si fermò sussultando. Il ragazzo mi fece uscire con insperata cautela, mi prese sotto braccio senza dire parola. Non era tipo da complimenti. Passai dalle sue mani a quelle di una signora anziana, apprensiva, agitata, che mi tormentava di apprezzamenti e gentili carezze, e introducendomi nell’appartamento mi aiutava a togliermi gli impicci di dosso.

«Che bella, che carina, così fresca e piena di vita, così luminosa – ripeteva. – In salotto, in salotto, c’è un posto che aspetta proprio lei!» E via ad accomodarmi prima di qua, poi di là, a rintronarmi di parole, a offrirmi da bere. Io che se dicevo di no temevo di offenderla, non risposi, e allora lei si precipitò in cucina, lasciandomi sola di fronte al balcone, in quella grande stanza tutta diversa da come me l’ero immaginata. Solida, con mobili massicci di legno scuro, pochi quadri dalle pesanti cornici dorate, divani di velluto e un tappeto persiano. Nessuna traccia del mio amato, nemmeno una fotografia tra le tante in mostra mi rendeva i suoi lineamenti sottili, nervosi, nobili.

Tornò, la vecchia, con una caraffa sostenuta da entrambe le mani tremolanti, mi impose di bere, facendomi trangugiare a sorsate fredde l’acqua di cui non sentivo bisogno.

Suonò, improvviso e allegro, il campanello: lei si precipitò alla porta, io mi sentii rimescolare all’idea che fosse lui, finalmente, ad apparirmi davanti. Arrivò invece un ragazzino, magro e foruncoloso, con uno zainetto sulle spalle, una lattina di Coca Cola in mano. Non mi degnò di un’occhiata, non si accorse proprio della mia presenza. Chiamava nonna la vecchia, e lei lo inseguiva per le stanze, implorandolo di togliersi gli stivali, ripetendogli di lavarsi le mani.

«Robi – continuava – Robi, ascoltami!» Forse era il fratello minore del mio signore, che diversamente da lui doveva avere ben altro nome: Edmondo, almeno, Adalberto, Piervittorio. Un nome per pochi.

Suonarono di nuovo alla porta. «Ecco Nadia» disse la nonna. E ancora un profluvio di parole ad accogliere una ragazza giovane, con la frangetta nera, il mantello rosso, piena di pacchi e pacchettini che appoggiò sul tavolo. «È arrivato qualcosa per te», mi indicò la nonna.

La ragazza si avvicinò. Mi sentii avvampare sotto il suo sguardo fermo; non di timidezza, non di gelosia. Era bella, bella e antipatica, bella e profumata, bella e saccente.

«Un’altra stella di Natale» la sentii dire incolore, né delusa né arrabbiata. Prese il biglietto di lui che sostenevo dolcemente tra le foglie. Lesse. Alla nonna che spiava riferì piatta: «È di Gianni. Si è sprecato…»

Strappò il biglietto, avviandosi di là. La nonna le urlò dietro che doveva almeno telefonargli, a Gianni, per ringraziarlo.

 

 

 

Da Inverni e primavere, e-book, 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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