Letteratura

Un po’ di possibile, altrimenti soffoco

23 Ottobre 2017

In un dolcissimo mattino di sole, parlo con i miei alunni di don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento, convinto che siano giganti: un hidalgo, dico, vale solo se i suoi nemici sono “giganti”, un cavaliere è forte soltanto se la sua avventura non si risolve in una insignificante rappresaglia, in generale, un uomo è considerato dalla società solo se dimostra di essere un vincente.  Però la vita non sempre ti riserva vittorie.

Poi, continuando nella lettura dell’episodio, un punto cattura l’attenzione della classe: finalmente Sancho Panza con la sua concretezza, riporta il cavaliere alla realtà: altro che giganti, Don Chisciotte si è lanciato contro le pale di mulini a vento! Tutti concordano con il titolo che l’autore del manuale ha scelto per il brano: “La follia di un hidalgo”.

Alla fine della lezione, quando ormai sono pronta a uscire dall’aula, un ragazzo mi dice dall’ultimo banco, dove penso, sbagliandomi, che sonnecchi annoiato dalle panzane di uno scrittore del Seicento: “Ma, prof, almeno lui aveva dei giganti da sognare!”

Il punto è tutto qui: noi abbiamo perduto “don Chisciotte”, abbiamo smarrito il valore dei sogni, non sappiamo ormai cosa sia un ideale, non riusciamo più ad avere slanci propositivi: abbiamo perso l’utopia.

Appiattiti su un misero presente, non siamo in grado di scorgere il profilo di un futuro possibile.

La politica non va oltre un mediocre Rosatellum. La letteratura è solo documentaria (registra l’esistente) o introspettiva (non indaga il “fuori” e il “lontano”). La scuola è schiacciata dall’immediatezza del problem solving, dalla logica produttivistica del learning by doing e dalla fretta ansiogena di un piazzamento sul mercato del lavoro per studenti sfiniti da improbabili progetti di alternanza scuola-lavoro. I giovani vivono così in un orizzonte asfittico, fatto solo di presente o, peggio, gravato da un futuro che incombe e che non ha più la seduzione delle promesse, ma, piuttosto, si presenta come l’ombra di una minaccia.

Noi adulti generalmente reagiamo a questo stato di cose chiudendoci nella “retrotopia”, scrive Bauman, perché abbiamo un passato abbastanza consistente da poter idealizzare. L’effetto, però, è una lamentela inconsolabile e, in molti casi, il disadattamento rispetto alla realtà presente, mai all’altezza di un passato ineguagliabile.

E i giovani che hanno, invece, poco passato, a che cosa possono guardare?

Certo, non esistono ricette magiche; però l’appiattimento sull’hic et nunc spesso sotteso alla demonizzazione dei saperi umanistici perché non utili alla società tecno-pragmatica, non aiuta.

L’uomo – direbbe Giordano Bruno – è fatto anche di eroici furori,  ha bisogno dell’ubique et semper, vuole avere, come don Chisciotte, uno sguardo capace di andare oltre il cinismo dei Sancho Panza di turno che continuano a ripetere “ma chi te lo fa fare!”. L’uomo ha bisogno di una via d’uscita dalle gabbie del presente e dalle trappole di un passato che non torna.

Solo uno spazio più ampio destinato alle humanities può suggerire probabili allargamenti di prospettive nutrendo il pensiero creativo, perché la poesia, l’arte – si sa – rispondono a un bisogno metafisico, colmano vuoti, ampliano i confini della vita.

Forse ha ragione il mio studente: almeno don Chisciotte aveva il coraggio di sognare i giganti, moltiplicava i suoi orizzonti, integrava la realtà con mille possibilità, opponeva i suoi sogni ai castelli fumosi di quel gigante dai piedi d’argilla che era la Spagna del Seicento, aveva una via d’uscita rispetto ai barocchismi del suo presente senza più sostanza. E, in fondo, anche il suo scudiero, nonostante il pratico realismo delle parole dichiarate, continuava a seguirlo, anche lui nutriva i suoi sogni e immaginava di diventare, un giorno, governatore di un’isola che non c’è.

Sancho Panza come don Chisciotte? Forse sì, perché di realismo si muore.

Un po’ di possibile, altrimenti soffoco. (G. Deleuze, L’immagine – tempo)

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