Letteratura

Un Paese senza memoria

27 Gennaio 2017

Alberto Arbasino è scrittore snob ed exclusive. Molti amici mi hanno confessato di non reggerlo, e che, dopo le prime dieci righe si chiedono: “Ma perché scrive con tutte quelle citazioni, quella catasta di libri, quel modo frou frou di architettare il testo? Ma cosa vuole dire, mah, boh”,  e mollano lì la sua scrittura, che per i miei amici in genere resta un paginone di giornale, mai un libro, perché  raramente lo abbordano in volume, avendo l’ultimo americano da rincorrere.

Invero Arbasino scrive (quest’anno compie 87 anni: Auguri Venerato Maestro!) sapendo di escludere le masse come proprio destinatario privilegiato. Lui dice che se ci sono ristoranti top come  anche trattoriuole alla buona, e la gente è disposta a seguire Master Chef e indicazioni Michelin e a pagare un fracco di soldi per la buona cucina, perché poi davanti al cibo spirituale fa le smorfiette e non sa riconoscere la qualità di scrittura da quella tirata via alla bell’e meglio? Riprendendo i tre livelli di Virginia Woolf highbrow, middlebrow e lowbrow è ovvio che lui si riferisca al primo target. E se dovessimo prendere la vecchia distinzione di Vittorini tra scrittori che producono beni di consumo e scrittori che approntano mezzi di produzione, Arbasino andrebbe classificato sicuramente nella seconda: scrittore per scrittori come ben  sapeva il compianto Edmondo Berselli. Non è sempre una bella scelta questa di Arbasino, visto che prendere il colto e l’inclita dovrebbe essere l’obiettivo di qualsiasi scrittore che voglia farsi leggere (Manzoni ci riuscì clamorosamente  approntando congegni letterari multilevel) tanto più per  uno scrittore di bella tradizione civile illuminista lombarda qual è il Nostro, ma è la sua scelta, così gli detta la Musa.

Sulla scia della tradizione letteraria patria che ha preso i Peninsulari come oggetto di studio, di esortazione, di invettiva talora (la lista è lunga, si va da Dante a Petrarca, da Machiavelli a Leopardi nientemeno) Arbasino ha sempre tenuto d’occhio la “cosa italiana” dedicandole buona parte della propria produzione, davvero vasta,  accumulatasi nell’ultimo sessantennio. A partire  da “Fratelli d’Italia” (1963),  innumerevoli gli scritti che  egli ha dedicato ai tic e tabù dei connazionali, alle loro “metafore ossessive”, ai loro “corsi e ricorsi”, alle loro “vecchie solfe”. Da “Fratelli d’Italia” nelle sue tre redazioni dicevo, a “Paesaggio italiano con zombi” a questo “Un Paese senza” che vorrei ricordare brevemente nel giorno della memoria ritenuto fiacco da molti. Perché Arbasino?

Perché  il suo libro si apre con una filastrocca a mo’ di ouverture sulle mancanze di un “Paese senza”, tema  che tratterà nel corposo volume, e nel primo verso trovo  un raggelante  “Un Paese senza memoria”.

Lo studio dei connazionali, per chi l’ha condotto con una certa assiduità, ha dato qualche spiegazione di questa smemoratezza collettiva. Probabilmente l’impressione nel precordio di una lunga fila di secoli di fatica,  difficoltà,  asprezze, precarietà del vivere nella Penisola, l’ “Italie sanglante”, che catturava e atterriva i viaggiatori del Grand Tour,  un’Italia detta anche dei “secoli bui” con una fortunata formula  – da Cateau-Cambrésis fino alla discesa di Napoleone  (1559 -1796)  –   flagellata da ogni male, da ogni penuria, da ogni devastazione, da una tale fame circolante nelle campagne che anche “i cani abbaiavano alla luna scambiandola per polenta” (Pavese, “La luna e i falò”), ebbene tutto ciò avrebbe dato luogo al “carattere nazionale” ancora circolante, tra i cui tratti si può riscontrare ancora  attivo e operante  un appiattimento sull’oggi, talora meschino ma spesso gioioso,  nonchalant, “scacciapensieri” ;  un certo realismo da  “crosta del pane”; un’assenza arcigna di principi (cinismo),  e un certo  “vitalismo feroce e grullo” (Arbasino dixit in un “Paese senza”),   tutti tratti che, come l’attributo virile, non “vogliono pensieri”. Le anfananti  cure del presente, poi,  sembrano aver ridotto un Paese perennemente in crisi (ho due volumi Einaudi in casa della metà degli anni ’70  intitolati “La crisi italiana” quando il PIL springava come un puledro) a percorrere tutta la scala a chiocciola della depressione collettiva –  mista però a euforia televisiva da comici svalvolati in servizio permanente effettivo ed ex comici Leader truci e  sfanculanti-, depressione che sembra trovarsi sempre più laggiù in fondo, dove si tocca la coda del diavolo dello schianto finale.

E allora diamola questa catena di illazioni di Arbasino sulle “mancanze” del  nostro carattere nazionale che apre il volume “Un paese senza” nella mia edizione  1980.

Un Paese senza memoria

Un Paese senza storia

Un Paese senza passato

Un Paese senza esperienza

Un Paese senza grandezza

Un Paese senza dignità

Un Paese senza realtà

Un Paese senza motivazioni

Un Paese senza programmi

Un Paese senza progetti

Un Paese senza testa

Un Paese senza gambe

Un Paese senza conoscenze

Un Paese senza senso

Un Paese senza sapere

Un Paese senza sapersi vedere

Un Paese senza guardarsi

Un Paese senza capirsi

Un Paese senza avvenire?

 

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