Letteratura
Un Invito–Guida al pensiero di Maria Zambrano
Tra le varie «forme del pensiero», o generi letterari, che Maria Zambrano (Vélez, Malaga, 1904 – Madrid 1991) annovera in un suo breve ma intenso saggio (La “guida” forma del pensiero, in Verso un sapere dell’anima, Cortina Milano 1996), oltre agli accademici Trattati sistematici, «la forma sistematica con cui si tende di solito a identificare la Filosofia», si trovano «le Confessioni, le Guide, le Meditazioni, i Dialoghi, le Epistole, i Trattati brevi, le Consolazioni». I Sistemi, dice la filosofa spagnola, si sono installati nel discorso filosofico fino a prenderne una forma egemone, e hanno come compito quello di enunciare in modo oggettivo le idee universali, chiare e distinte, le più alte verità speculative di cui la ragione sia capace. D’altro canto, le «forme miste», tra le quali soprattutto le Confessioni e le Guide, sono «forme attive della conoscenza (…) nascono dal desiderio di penetrare nel cuore umano, si fanno carico di diffondere le idee fondamentali per utilizzarle come ispiratrici nella vita quotidiana dell’uomo comune che non è, né pretende essere filosofo o saggio» (Ivi, p. 55), «far aderire il pensiero ai bisogni della vita» (Ivi, p. 57). Le Guide soprattutto, di cui prototipo ed esempio luminoso è la Guida dei Perplessi di Maimonide – apparsa in Spagna in giudeo-arabo nel 1190 –, hanno come obiettivo di preparare l’animo del lettore a scoprire da sé il cammino filosofico da percorrere; dunque, non possono essere né oggettive né sistematiche. «Le Guide e le Confessioni mostrano il punto estremo dell’esistenza soggettiva nell’atto di scrivere. La confessione è la scoperta di chi scrive, mentre la Guida è proiettata completamente verso chi legge; è come una lettera» (Ivi, p. 59).
Tra i generi filosofici che si potrebbero aggiungere all’elenco di Zambrano, c’è sicuramente l’Invito alla lettura di un filosofo/a. In commercio si trovano molte Introduzioni ai filosofi, che però spesso hanno la caratteristica di voler esaurire in modo sintetico tutti o quasi i temi dell’autore o autrice di cui trattano, quasi rendendo superfluo, o non strettamente necessario, un approccio diretto ai testi. È quindi raro trovare introduzioni che siano anche e soprattutto Inviti, cioè che suscitino in chi legge, attraverso l’illustrazione di alcuni punti chiave, la curiosità di continuare da sé lo studio, di approcciarsi direttamente ai testi del filosofo o della filosofa di cui si tratta. Per questo mi pare che il libro di Maria Forte, Maria Zambrano. Nascere Dis-nascere Rinascere, Pazzini, Villa Verucchio 2022, si ponga come esempio prezioso di un Invito alla lettura di una grande filosofa, spesso non conosciuta adeguatamente. Ma questo saggio a mio avviso può valere anche come Guida, nel senso datole dalla pensatrice spagnola, perché fornisce spunti di riflessione e illuminazione per la vita quotidiana, avviando una pratica filosofica sulle tracce di lei.
Maria Forte è docente di storia e filosofia nei licei, ha conseguito la laurea in Filosofia della religione presso “La Sapienza” di Roma e il Dottorato presso la Università Lateranense, continuando poi gli studi in teologia alla Università Gregoriana. Ha insegnato presso l’Istituto di Scienze religiose di Latina, e cura la formazione di docenti, oltre a scrivere e pubblicare articoli e saggi filosofici e teologici.
L’Invito-Guida di Maria Forte enuclea e illumina alcuni punti generativi di un pensiero che si pone sotto la cifra della «ragione poetica» – in cui cioè «il sentire e il capire non possono riunirsi se non, come tutto ciò che vive o è sul punto di farlo, per mezzo di una sorta di simbiosi» (M. Zambrano, I Beati, SE, 2010 Milano, p. 82). Ragione poetica anche nel senso etimologico di creativa e «materna»: essa è continuamente materna-generatrice dell’altro e di sé, perché «la nascita è una conquista continua, frutto della necessità di de-crearsi e ri-crearsi, senza possibilità di sosta» (Forte, p. 34). In un testo della filosofa spagnola apparso su “aut aut” nel 1997, leggiamo: «E ora devo dire qualcosa di quello che intendo per filosofia, e cioè la trasformazione del sacro nel divino (…) Per scoprire il divino esiste il pensiero, il sacro è ascritto a un luogo, è muto, lancia solo segnali, attrae, e uno può rimanervi attaccato, ma di lì per così dire ci salva il divino, e nel divino si dà il contrario, avviene il contrario, ovverosia la trasparenza e la presenza di ciò che abbiamo sempre voluto incontrare, e che, sebbene non lo incontriamo, sappiamo che sta lì. Il divino è un orbita che inerisce alla ragione. (…) Trasformazione del sacro nel divino, cioè di quanto è viscerale, oscuro, passionale e perennemente oscuro ma aspira a essere salvato nella luce (…) È la salvezza… e da qui viene la connessione con il culto della Vergine Maria, colei che era prefissata presupposta nelle acque amare del primo giorno della creazione». (Quasi un’autobiografia, “aut aut” 279/1997, pp. 130, 131).
Maria Forte commentando il brano, aggiunge: «Certamente può apparire singolare che un pensare laico quale è quello filosofico (…) venga legato così radicalmente a un simbolo religioso, ma la figura della Vergine viene inscritta dalla filosofa in un filo rosso tenuto in mano da donne come Antigone e Diotima di Mantinea, [che in altri testi Zambrano aveva evocato in connessione con la propria visione della filosofia come ragione materna e poetica] madri – a loro modo – feconde di un pensare delirante che concepisce la trasformazione di ciò che è viscerale, oscuro , passionale, sacro e che aspira ad essere dato alla luce per essere salvato (Forte, p. 33).
Nello spirito di Zambrano, anche la presente recensione non vuole essere una sintesi del libro di Maria Forte, ma piuttosto un invito alla sua lettura.
Il volume di Forte si scandisce in quattro densi capitoli (Pensare l’esilio; Ragione materna e poetica; Adsum; Idioti, clowns, vagabondi e disadattati), oltre a una Introduzione, a una piccola antologia e a una bibliografia essenziale.
Il libro è scritto in una prosa molto chiara, elegante e profonda, in uno stile che pur essendo accurato e filosofico, rifugge dai manierismi che talvolta abbondano negli scritti accademici, ma anche in quelli – come questo – di alta divulgazione. Si tratta, mi sembra, di un testo ispirato allo stile stesso della filosofa spagnola.
Vorrei rilevare tre punti che mi pare il volume Maria Forte faccia ben trasparire del pensiero di Zambrano: Il rapporto tra stile e scrittura, quello tra filosofia e autobiografia, l’esilio come cifra della filosofia.
Il rapporto tra lo stile e la scrittura. La scrittura per Zambrano è esistenza filosofica vitale, in una contaminazione con la poesia e l’arte. Non è una scrittura sistematica (ma nemmeno aforistica), ma poetica, che al trattato predilige il saggio, l’articolo, la meditazione, la riflessione, la memoria autobiografica (Cfr. Delirio e destino, [1953, ma pubblicato in spagnolo nel 1989], Cortina, Milano 2000). In uno dei testi più belli della filosofia del Novecento, Perché si scrive, leggiamo: «Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; (…) Se esiste un parlare perché scrivere? L’espressione immediata [il parlare], quella che sgorga dalla nostra spontaneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamente la responsabilità, perché non emana dalla totalità integrale della nostra persona è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né pertanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito veniamo vinti da esso (…) È una continua vittoria che alla fine si trasforma in sconfitta. E da questa sconfitta intima, umana , non di un singolo uomo ma dell’essere umano, nasce l’esigenza di scrivere. Si scrive per rifarsi della sconfitta subita ogni qualvolta abbiamo parlato a lungo» (Verso un sapere dell’anima, op. cit., pp. 23-24).
Il rapporto tra la filosofia e la autobiografia: «Il pensare di Maria Zambrano è inscindibile dal vivere, secondo l’insegnamento del suo maestro Ortega y Gasset, nelle Meditaciones del Quijote: «Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo». Le circostanze in cui Zambrano prese coscienza della propria vocazione filosofica furono quelle della Spagna e dell’Europa degli anni Trenta e Quaranta. Forte, individuandone una parentela con gli intellettuali del Manifesto di Ventotene (Manifesto per un Europa libera e Unita) – Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Ursula Hirshman – scrive: «La storia che scorre sotto i suoi occhi è segnata da inquietudini, da scelte ineludibili e schieramenti necessari, a cui ella stessa non si sottrarrà e per i quali pagherà un prezzo molto alto: la perdita della patria amata e l’esilio. Il suo non è il ruolo del distaccato osservatore , ma quello di chi vive con passione lacerante la condizione tumultuosa dell’Europa, di cui sperimenta e analizza l’agonia» (p. 6). Nata a Vélez, Malaga nel 1904, e morta a Madrid nel 1991, esule dal 1939 al 1985 dalla Spagna in varie paesi e città, Parigi, New York, l’Avana, Città del Messico, di nuovo Parigi (subito dopo la seconda guerra mondiale ) poi Roma, Ginevra, Maria Zambrano si definisce filosofa per vocazione: «la mia autentica condizione , cioè vocazione (…) è stata quella di pensare, di vedere, di guardare, di avere la pazienza sconfinata, che ancora in me permane, di vivere pensando» (da Quasi un’autobiografia, cit. in Forte p. 5).
L’ultimo elemento che vorrei sottolineare è quello dell’ Esilio come cifra del pensare e dell’esistere, nel suo triplice dinamismo di nascere, dis-nascere e rinascere. L’esilio sperimentato da Maria Zambrano diviene apertura metafisica con la quale pensare l’esistenza nella sua esemplarità non sussumibile in una generalizzazione logica. In esso, la tensione tra l’origine e il ritorno dischiude un’esperienza di «visione», in quanto «l’esiliato è nella condizione di dover muovere fuori di sé e di guardare la storia con uno sguardo che solo a lui è concesso» (Forte, p. 46). Dall’esilio c’è ritorno, ma può anche non esserci. Se non c’è ritorno, si dischiude l’esperienza dell’esodo, dell’espropriazione di sé per l’altro, e sarà la via intrapresa da Lévinas. Il pensiero di Zambrano, pur potendosi «accostare al sentire speculativo che ha affermato il primato dell’etica su quello dell’ontologia o dell’estetica, al pari, ma con le necessarie differenze, di Emmanuel Lévinas o di Hannah Arendt» (Forte, pp. 9-10), piuttosto è ascrivibile ad un esistenzialismo estetico (cfr. C. Ferrucci “Maria Zambrano: un esistenzialismo estetico”, in M. Zambrano, I beati, op. cit., pp. 103-120). Se il ritorno è problematico, è l’esilio stesso che diventa a un tempo «patria» e «salita», ma in un triplice senso: estetico (legato all’esperienza sensibile e alla auto-esperienza da ultimo costituente il sé, nelle sue molteplici dimensioni), mistico-metafisico, e politico. In un testo del 1989, letto durante il discorso inaugurale del corso estivo dell’Università Complutense di Madrid, Zambrano scriveva: «Bisogna salire sempre. Questo è l’esilio (destierro), un pendio, sebbene sia nel deserto. Questo pendio che sale sempre e, per ampio che sia lo spazio visibile, è sempre stretto. (…) Vi sono certi viaggi dei quali solo al ritorno si comincia a sapere. Per me, visto da questo sguardo del ritorno, l’esilio che mi è toccato vivere è essenziale. Io non concepisco la mia vita senza l’esilio; esso è stato come la mia patria o come una dimensione di una patria sconosciuta, ma che, una volta conosciuta, diventa irrinunciabile» (cfr. M. Zambrano, L’esilio come patria, Morcelliana, Brescia 2016, pp. 155,156).
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Maria Forte, Maria Zambrano. Nascere Dis-nascere Rinascere, Pazzini, Villa Verucchio 2022.
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