Letteratura

Un inetto in punta di piedi

3 Luglio 2015

In Una vita (1892), romanzo d’esordio di Italo Svevo (pseudonimo di Aron Hector Schmitz, 1861-1928), il protagonista finisce per suicidarsi a causa del “desolato accorgersi della propria inettitudine” (Franco Gavazzeni): secondo il suo autore (certamente influenzato dagli scrittori realisti francesi del suo tempo), Alfonso Nitti “doveva essere proprio la personificazione dell’affermazione schopenhaueriana della vita tanto vicina alla sua negazione”.

Emilio Brentani, invece, protagonista del secondo romanzo Senilità (1898-1927), non si toglie la vita ma nella inettitudine si cristallizza; Svevo stesso fin dalle pagine iniziali definisce questo concetto:

Nell’anima una brama insoddisfatta di piaceri e di amore e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di sé stesso e della debolezza del proprio carattere…

Come evidenzia Eugenio Levi, “Amalia muore, Angiolina scappa, senza che egli riesca a dire né all’una né all’altra la parola che vuole”: questa parola è addio ed Emilio non riesce a dirla tanto alla sorella trascurata quanto all’amante fedifraga perché è incapace di voltare pagina e di lasciarsi il passato alle spalle, uscendo finalmente dalla sua palude interiore.

È questa, in ultima analisi, la senilità che dà il titolo al romanzo e che Marziano Guglielminetti definisce come

una dimensione temporale dell’esistenza non interpretabile cronologicamente, e quindi aperta alla diagnosi morale.

Aggiunge Giorgio Luti:

L’esistenza individuale è concepita da Svevo come un percorso obbligato attraverso la malattia, la vecchiaia e la morte, un cammino tragico che non offre soluzioni o scelte di sorta, ma si determina al contrario come realtà in progresso, sia all’interno di ciascuna opera sia nel complesso della ricerca.

L’identità fra l’uomo e l’artista è così marcata in Svevo che nel 1902, quattro anni dopo l’uscita della prima edizione di Senilità, scrive:

Io, a quest’ora e definitivamente, ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio.

Profezia evidentemente fallace dato che la sua attività letteraria continuerà, anche se non sempre con i medesimi risultati qualitativi; ma sicuramente La coscienza di Zeno (1923) corrisponde a un modello di scrittura introspettiva che, come uomo prima che come autore, lo poteva aiutare non poco a “capirsi meglio”.

Giacinto Spagnoletti ricorda che, “come Stendhal, Svevo è un malato di nervi che si cura raccontandosi”; e in tutta la sua narrativa e nei vari personaggi che la popolano è possibile ravvisare moltissimi elementi tratti dalla sua diretta esperienza di vita e da persone reali amate e conosciute.

Scrive ancora Bruno Maier:

Emilio Brentani è un alter ego di Alfonso Nitti (e del medesimo Svevo): è la seconda individuazione artistica dell’uomo incapace di vivere, se non interiormente; dell’uomo cui sfugge la vita vera perché è tutto assorto nel mondo dei suoi pensieri e delle sue costruzioni mentali e sottopone sé stesso a un implacabile controllo raziocinante, a una sorta di perpetua radioscopia spirituale.

Claudio Carini
Claudio Carini

E proprio andando a rileggere il quattordicesimo e ultimo capitolo di Senilità – supportati in questo caso dalla profonda e disincantata lettura integrale ad alta voce di Claudio Carini per Recitar Leggendo – si comprende come anche un narratore onnisciente quale fu sempre Svevo pieghi la retorica e le sue figure al messaggio che ci vuole trasmettere; e per dare l’idea dello scacco inferto al suo protagonista nel momento in cui egli cerca di vivere la vita vera non solo interiormente, Svevo accumula antitesi, antifrasi e ossimori in una narrazione che finisce per mettere alle strette anche il lettore.

Faccio qualche esempio, partendo proprio dall’inizio del quattordicesimo capitolo:

L’immagine della morte è bastevole ad occupare tutto un intelletto. Gli sforzi per trattenerla o per respingerla sono titanici, perché ogni nostra fibra terrorizzata la ricorda dopo averla sentita vicina, ogni nostra molecola la respinge nell’atto stesso di conservare e produrre la vita. Il pensiero di lei è come una qualità, una malattia dell’organismo. La volontà non lo chiama né lo respinge.

La rappresentazione mentale della morte è cognitivamente pervasiva: e l’uomo si misura con la morte sia come individuo che come organismo, in maniera tutt’altro che unitaria e organica.

Di questo pensiero Emilio lungamente visse

tuttavia. Ma la vita è inscindibilmente legata alla morte:

La primavera era passata, ed egli non se n’era accorto che per averla vista fiorire sulla tomba della sorella.

La vita come movimento e tensione si contrappone alla morte come stasi e imperturbabilità:

Quando la sua commozione s’affievolì, gli sembrò di perdere l’equilibrio. Corse al cimitero. La strada polverosa lo fece soffrire, e indicibilmente, il caldo. Sulla tomba prese la posa del contemplatore, ma non seppe contemplare. La sua sensazione più forte era il bruciore della cute irritata dal sole, dalla polvere e dal sudore. A casa si lavò e, rinfrescata la faccia, perdette ogni ricordo di quella gita.

Ma c’è anche la morte nel cuore che assale a un certo punto Emilio:

Un giorno il Sorniani gli raccontò che Angiolina era fuggita col cassiere infedele di una banca. Il fatto aveva destato scandalo in città.
Fu una sorpresa dolorosissima per lui. Si disse: – M’è fuggita la vita. – Invece, per qualche tempo, la fuga d’Angiolina lo ripose in piena vita, nel più vivace dei dolori e dei risentimenti. Sognò vendette e amore, come la prima volta in cui l’aveva abbandonata.

Una parola ritorna, a più riprese e talvolta perifrasata, portando con sé una dolcezza vaga e incerta ma in qualche misura liberatoria: questa parola è solitudine; per Emilio la solitudine nasce dall’assenza di un significato, interiore ed esteriore insieme:

Si sentì solo, solo.

E poi:

Egli – se lo disse salendo le scale – egli non aveva dimenticata Amalia, la ricordava anche troppo, ma aveva dimenticata la commozione della sua morte. Invece che vederla rantolare nell’ultima lotta, la ricordava quando triste, spossata, con gli occhi grigi lo rimproverava del suo abbandono, oppure quando, sconfortata, riponeva la tazza preparata per il Balli o, infine, ricordava il suo gesto, la sua parola, il suo pianto d’ira e di disperazione. […] La sua morte sola era stata importante per lui; quella almeno l’aveva liberato dalla sua vergognosa passione.

E ancora:

Per chiarire un dubbio che gli venne, raccontò d’essere stato quel giorno al cimitero. Infatti il suo dubbio fu subito risolto, perché, senz’alcuna esitazione, la signora disse – Io al cimitero non vado mai. Non ci sono stata dal giorno della morte di sua sorella.  Dichiarò poi ch’ella sapeva oramai che con la morte non si lotta. – Chi è morto è morto e il conforto non può venire che dai vivi. – Aggiunse senz’alcuna amarezza: – Purtroppo, ma è così. – Disse poi ch’era stata tolta all’incanto dei ricordi dalla breve assistenza prestata ad Amalia. La tomba del figliuolo non le dava più quella commozione che sconvolge e rinnova. Parlava veramente i pensieri d’Emilio; certo non più, quando concluse con un assioma morale. – Vi sono i vivi che hanno bisogno di noi.

E infine:

Quando riuscì a togliersi da quell’abbraccio, la nausea aveva distrutta in lui qualsiasi commozione. Non sentì alcun bisogno di continuare la predica incominciata e se ne andò dopo di aver fatta una carezza paterna, indulgente alla fanciulla, ch’egli non voleva lasciare afflitta. Una grande tristezza lo colse quando si trovò solo sulla via. Sentiva che la carezza fatta per compiacenza a quella fanciulla segnava proprio la fine della sua avventura. Egli stesso non sapeva quale periodo importante della sua vita si fosse chiuso con quella carezza.

Nella sua lettura ad alta voce Carini segue il filo rosso del disincanto circolare lungo tutte queste pagine, culminanti forse proprio in quella brevissima frase illuminante:

Si sentì solo, solo.

In essa l’interprete riversa una commozione piena e sofferta, mentre lo stacco che viene a introdurre fra quei due identici aggettivi (“solo, solo”) è sottolineato da una pausa lunghissima e da una intonazione discendente che porta direttamente, appunto, alla morte nel cuore.

La morte nel cuore è, per Emilio, talmente dolorosa da poter essere retta soltanto a prezzo di una sublimazione che sfocia nel deliquio: è quanto viene descritto nelle ultime righe del capitolo, che Carini sgrana con amarezza ammantata di solennità ma con un accento provvido e pietoso: una interpretazione, la sua, che non si dimentica e lascia il segno.

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Italo Svevo, Senilità
Lettura integrale interpretata da Claudio Carini
Recitar Leggendo, Perugia 2007 – www.recitarleggendo.com
1 CD MP3 oppure download file .mp3

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