Letteratura
Tutti colpevoli in un Sudafrica abbandonato da Dio
“La preda”, romanzo ambientato tra strade polverose e squallide cittadine sudafricane, racconta episodi di violenza e soprusi rendendoli parabole di una comune condizione umana di desolazione e impossibilità di riscatto.
Dello scrittore sudafricano Damon Galgut (Pretoria 1963), autore di libri di grande successo come The Good Doctor e The Promise, la casa editrice E/O ha pubblicato uno dei primi romanzi, La Preda del 1995, che certo non demerita rispetto alle opere successive. I suoi 56 capitoli brevi, a volte brevissimi, e lo stile steinbeckiano, paratattico, seccamente oggettivo, rendono facile e veloce la lettura, in modo tale che è soprattutto l’accavallarsi rapido degli avvenimenti ad assorbire ogni curiosità di chi legge, direzionandola verso la conclusione, forse intuibile ma non scontata.
“Li guardò e loro lo guardarono e poi entrambi si guardarono l’un l’altro”; “Erano in un capannone attiguo alla casa. Erano Valentine e Small. Erano fratelli”; “E il caldo. E l’attesa. E gli occhi”. Due esempi tra in tanti che si potrebbero fare del metodo di scrittura, scarno nei dialoghi ridotti all’osso, ritmato e contenuto dalla frequenza dei punti fermi, con cui Galgut procede scandendo la narrazione. Eppure, il suo studio dell’ambiente, dei personaggi, degli oggetti, è comunque attento e vigile. Le strade sterrate tra erbacce e canneti bruciati dal vento; il litorale sabbioso che scivola verso il mare appena increspato; il veld brullo, spezzato da fossi; il mondo animale in genere abbrutito o comunque disgustante (corvi, manguste, termiti, scarafaggi, cani randagi, pipistrelli); gli esseri umani perlopiù sovrappeso, sudati, oppure scheletriti, con le mani screpolate, il viso macchiato di nei e brufoli; suppellettili sformate, finestre e porte sgangherate. Tutto, insomma, sembra voler sottolineare la desolazione del mondo circostante, su cui implacabili si abbattono improvvise piogge torrenziali oppure arde un sole “giallo e costante”.
Su questo sfondo si stagliano poche, memorabili figure. La vicenda si apre con il protagonista senza nome che cammina, impaurito e stravolto dalla stanchezza, lungo una strada polverosa, probabilmente fuggendo da qualcosa: piange, ha mani e bocca piene di vesciche. Lo affianca un furgone guidato da un uomo tarchiato e quasi calvo: è un prete diretto verso una parrocchia rimasta temporaneamente vacante. Si chiama Frans Niemand, gli offre un passaggio, pagandogli una doppia colazione in una sala da tè. Quando in seguito tenta un maldestro approccio sessuale, lo sconosciuto gli spacca le testa con una bottiglia e trascina il cadavere in una cava. “La cava era nera, un’assenza nella superficie del mondo”. La cava, il burrone, la buca, la miniera dismessa, tornano spesso nell’arco della storia come metafora del nascondimento, del rimosso e del sepolto, così come il continuo lavarsi le mani, la faccia e il corpo di tutti i personaggi indica il tentativo di liberarsi di qualsiasi sporco possa essersi incrostato sulla pelle e nell’anima.
L’assassino decide di sostituirsi al sacerdote ucciso, dirigendosi verso la missione che gli era stata assegnata con il veicolo stipato di valigie, paramenti e testi sacri. “La città era piccola e dispersa e brutta. Prevaleva una sterilità di cemento. Le strade principali erano state asfaltate molto tempo prima, ma le strade secondarie erano di ghiaia. Niente era più alto di un piano”. Una donna in vestaglia lo accoglie in canonica, indicandogli con indifferenza la camera da letto. Svegliatosi nel tardo mattino, scopre che il furgone è stato svaligiato, e alla stazione di polizia dove si reca per la denuncia fa la conoscenza con il Capitano Mong. Tra i due inizia da questo momento un duello fatto di reciproci sospetti, pedinamenti, fughe, in uno scambio di ruoli tra preda e predatore, vittima e carnefice, in cui i confini di colpa e rettitudine, perdono e punizione si confondono. Nel paesino di pescatori “taciturni e diffidenti”, il falso prete si investe del ruolo religioso usurpato dicendo messa e preparando le omelie, mentre intorno a lui l’atmosfera si incupisce sempre più opprimente quando nella cava viene ritrovato il corpo del sacerdote assassinato.
La seconda parte del romanzo assume una struttura sempre più concitata, in cui episodi violenti e inattesi si susseguono, accompagnati da uno stile ansimante, franto, punteggiato da dialoghi confusi di protagonisti e comparse, in una narrazione che continuamente ripercorre e ricostruisce il già detto. Processi farsa, poliziotti maldestri, incendi dolosi, arresti ed evasioni, inseguimenti ed esecuzioni sommarie, vengono accompagnati dalla musica euforica diffusa da un circo di saltimbanchi straccioni. L’inseguimento tra il Capitano esausto e il falso prete fuggiasco diventa emblematico dell’eterna contesa tra verità e finzione, bene e male, quando il reale sfrangia i suoi contorni in filamenti ingarbugliati, e le sembianze concrete di corpi e oggetti si trasformano in allucinazioni ossessionanti. Lo sfondo in cui si colloca lo scontro finale incombe minaccioso tra dighe e dirupi, paludi e alture, nella solitudine spettrale in cui i due uomini si fronteggiano. “Quando il poliziotto risalì fuori dalla diga, anche lui si rialzò e proseguì. Non era più sicuro che ci fosse una differenza tra loro o che fossero separati l’uno dall’altro e si spostarono insieme sulla superficie del mondo e il sole tramontò e si fece buio e continuarono a duettare. Si muovevano nella notte in vaghi contorni come i sogni che il suolo stava facendo”.
La vicenda narrata da Damon Galgut si fa allora metafora di una condizione esistenziale in cui tutti diventano malvagi torturatori e insieme pietose vittime, e il finale livellante non libera nessuno dalla colpa di vivere.
DAMON GALGUT, LA PREDA – E/O, ROMA 2024 – Trad. Tiziana Lo Porto, p. 160
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