Letteratura
Tutte le ragazze con una certa cultura e l’esordiente Roberto Venturini
Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un quadro di Schiele appeso in camera. Non nascondo che, davanti a un titolo così lungo e così marcatamente ironico, le reazioni possano essere contrastanti. In libreria sono rimasta ferma a soppesare il romanzo, a firma dell’esordiente Roberto Venturini, classe 1983, qualche minuto. Lui vuole l’amore, ma trova una radical chic ciclotimica il sottotitolo. In copertina una foto indatabile (anni Sessanta? Oggi?), dai toni filtro Amaro di Instagram. Leggo le prime righe, come faccio sempre, ma ho già deciso di comprarlo. È un libro studiato, forse per piacermi, ma non ci trovo nulla di male. Mi piacciono le cose curate nei dettagli e, scoprirò, questo romanzo appartiene alla categoria.
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La storia è relativamente semplice e universale: un amore, un abbandono, l’elaborazione del lutto, con tutti i suoi rumori di fondo. Luca ha trent’anni, Silvia poco meno, un’ottima formazione culturale alle spalle, lavori precari, una certa disillusione che però non li porta mai alla resa. Luca corregge bozze e fa l’assistente universitario, Silvia studia ancora, dipinge, ma sta cercando il suo spazio. Il loro incontro è degno di un romanzo, come molti amori “raccontati” ancor prima di nascere, propri di una generazione che della rappresentazione – e autorappresentazione – non può fare a meno. Fa parte del suo patrimonio genetico. Ma siamo di fronte a un racconto generazionale? No o, almeno, non del tutto.
Di una generazione si respirano i modi, sempre estremamente teatrali, anche quando si affetta normalità, le “pose” e le scelte di stile – una vecchia Cinquecento, il pane fatto in casa con farine integrali, l’incenso alla cannella, Netflix e i documentari su Rai 5, ma senza che questo rappresenti una rivendicazione. Fa sentire, se mai, a casa il lettore trentenne.
Non sono generazionali il tema, lo sviluppo della trama: chiunque può riconoscersi nelle travolgenti gioie iniziali di un rapporto che nasce, nell’assoluto rappresentato dall’altro in via di scoperta, nell’assestarsi, poco a poco, nel confortante spazio a due, della relazione, nei problemi che, inevitavilmente, si strutturano con lo strutturarsi di un legame. Nuovo, ma non necessariamente generazionale ancora una volta, è il modo di raccontare i fatti. Semplice, privo di artificiosità. Lo stile e la struttura del romanzo sono meticolosamente costruiti – basti pensare solo alle note in apertura di capitolo, alle chiose, filmiche, che segnano l’avanzamento del racconto – ma i fatti si succedono con linearità, creando un ponte emotivo con il lettore che partecipa sinceramente a quanto sta avvenendo, che si può identificare. Poi ci sono i riferimenti culturali, costanti, assolutamente non accessori ma funzionali. Ci sono i cartoni animati e i film degli anni Ottanta, ci sono le canzoni di Cristina D’Avena e i giocattoli con cui una generazione è cresciuta, c’è la musica, tantissima musica, che attraversa almeno trent’anni di storia. In effetti la storia si mescola, in questo romanzo, e perde il suo connotato di linearità. Tutte le ragazze è, in questo senso, il frutto preciso di un’epoca in cui padri e figli possono condividere un background culturale come mai era successo in Italia. Si tratti di esperienza in prima persona – il bambino che guarda Ken il Guerriero nei pomeriggi dopo la scuola – o fruizione di seconda mano – il genitore che “subisce” il cartone animato a distanza o, attualizzando, il lettore di oggi, ventenne magari, per il quale Ken rappresenta un’operazione nostalgia verso uno spazio cultural-pop di cui non ha memoria. In questo contesto il gioco infinito della rielaborazione (a sua volta richiamata dalla rielaborazione artistica del pupazzo Cicciobello nei quadri di Silvia), viene condotto con grazia e, come accadeva nell’antichità, aiuta il lettore – che definirei quasi più uno spettatore per la struttura dell’opera – ad elaborare le emozioni e le esperienze di vita riportate attraverso la costruzione di un mito. Se infatti è alla letteratura che Venturini fa riferimento per descrivere l’andamento del soggetto ciclotimico (Kafka, Lewis Carroll, Collodi…), è l’immaginario televisivo a definire i parametri e i modelli entro i quali inserire l’immaginario emotivo dei protagonisti.
Tutte le ragazze così non si pone nella posizione di voler “dar voce” a una generazione, quanto in quella di essere uno spazio definito nella liquidità. In un’epoca in cui la categoria del disagio è diventata pervasiva – impossibile non pensare, fra le tante pubblicazioni che vengono richiamate alla mente durante la lettura, al saggio Teoria della classe disagiata di Ventura – offrire modi di espressione a questa condizione diventa, nella sua semplicità, un atto partigiano. Una sorta di invito alla presenza: “Siamo qua, bene o male andremo avanti”, che – a ben pensarci – è già molto. A differenza infatti di Ventura, che punta il dito, da una cattedra che ha avuto la fortuna di potersi ricavare (perché qualcuno glie ne ha dato la possibilità), contro i suoi simili denunciandone velleità, aspirazioni impossibili e atteggiamenti funzionali alla stasi, Venturini sorride. Con l’arma potente dell’autoironia empatizza con tutti i lettori – non solo coetanei – e rende più vicina e accessibile la condizione dei suoi protagonisti che, passo dopo passo, sta diventando in realtà una condizione intergenerazionale. Di fronte alla possibilità di potersi esprimere dunque c’è chi mette a nudo e in strada il disagio, c’è chi ricava una “stanza tutta per sè” dove poterlo gestire, senza andare al massacro, e provare a esistere. Una stanza in cui non può mancare, è evidente, un quadro di Schiele.
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R. Venturini, Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un quadro di Schiele appeso in camera, SEM editore, 2017.
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