Letteratura

Trent’anni senza Italo Calvino, e ancora cerchiamo le nostre città invisibili

18 Settembre 2015

Italo Calvino moriva trent’anni fa dopo poco più di dieci giorni di agonia in seguito all’ictus che lo colse il 6 settembre nella sua abitazione di Castione della Pescaia. Ricorda Gianni Celati, al capezzale dell’amico e maestro, che Calvino, con il capo totalmente coperto dalle fasciature, ad un certo punto pronunciò la frase quanto mai enigmatica: “Je suis un abat-jour allumé”.

Calvino è stato probabilmente il migliore interprete della figura dello scrittore pubblico del secondo Novecento. Un equilibrio che lo distanziò da figure più estreme (anche per versi opposti) come quella di Alberto Moravia e di Pier Paolo Pasolini che indubbiamente hanno lasciato un segno sia nella cultura del nostro paese che nella sua società letteraria intesa come quel gruppo capace di veicolare idee e promuovere visioni innovative attraverso il ruolo e la reputazione conquistata con la scrittura e la sua autorialità. Tuttavia Calvino appare oggi ancora nella sua interezza di autore e di intellettuale come un riferimento slegato dalla specificità del suo tempo. Una figura dunque capace di parlare all’oggi non solo con la propria lingua e con i propri testi, ma anche attraverso quella visione di lavoratore culturale che agisce attorno ai libri degli altri, figura che si fa autore e critico, letterato e curatore allo stesso tempo.

Italo Calvino ci ha lasciato con Le lezioni americane e con Le città invisibili due opere che ad oggi vengono lette e rilette, compulsate e rivisitate quasi in maniera ossessiva. Un lascito che sembra però più che altro una presa, infatti Italo Calvino sembra porsi più che come riferimento, come ostacolo invalicabile. La perdita storica del ruolo dell’intellettuale, il cambiamento profondo che diviene esplicito nella società italiana tra gli anni Ottanta e Novanta (all’interno dei quali scompaiano oltre che a Calvino anche Giorgio Manganelli e Goffredo Parise) sembrano portare il dibattito all’interno di una nostalgia del rimorso in cui tutto ciò che è cambiato è stato solo perduto e tutto ciò che non è più stato è figlio dell’incapacità odierna di incidere e di raccontare. Italo Calvino è stato ed è criticato più dai fratelli che dai figli: capace di collocarsi abilmente all’interno del dibattito, ha saputo affrontare le avanguardie sessantatreine con prudente attenzione e curiosità distanziandosi anche successivamente prima di ogni conflitto e scontro, quasi a protezione della propria scrittura. Dove non ha potuto esimersi è stato nel confronto aspro a cui veniva chiamato principalmente da Pier Paolo Pasolini e proprio nel loro scambio epistolare troviamo tra le migliori pagine civili della storia del nostro paese e in un certo senso le note a margine delle sue eterne contraddizioni.

Quanto devono o non devono oggi gli scrittori italiani a Italo Calvino? Esiste una letteratura italiana dopo di lui? Sono ovviamente domande pretestuose che vogliono però provare a liberare la letteratura italiana odierna dal fantasma di Calvino, dalle sue trasfigurazioni come dalla sua maschera costruita ad hoc dall’ansia critica di chi oggi è incapace di cogliere e di accettare nelle nuove narrazioni un mondo diverso, magari disturbante, ma comunque vivo e ricco di storie.

Abbiamo così raccolto attorno ad un tavolo alcune tra le voci più interessanti del panorama letterario italiano di oggi: Nicola Lagioia, vincitore con La ferocia (Einaudi 2014) dell’ultima edizione del Premio Strega e da anni presente nel dibattito culturale italiano, anche attraverso il blog culturale Minima&Moralia fondato con Christian Raimo; Chiara Valerio autrice del romanzo cult Almanacco del giorno prima (Einaudi, 2014), e capace di confrontarsi con i più diversi mezzi dalla radio alla tv fino al cinema con la scrittura del soggetto di Mia madre insieme a Nanni Moretti, Valia Santella e Gaia Manzini; Francesco Pacifico, che con Class (Mondadori, 2014) ha scritto probabilmente il principale romanzo di quella generazione espansa che in Italia oggi ingloba dai ventenni fino ai quarantenni; Giovanni Montanaro, raffinato e defilato autore del visionario Tutti i colori del mondo (Feltrinelli, 2012) e che con Tommaso sa le stelle (Feltrinelli, 2014) ha confermato la ricerca di un’opera armonica e coerente e Rossella Milone che con il recente Il silenzio del lottatore (Minimum Fax, 2015) ha raggiunto una maturità stilistica capace di proporre un’idea inedita e personale della forma racconto.

 

Quale l’eredità più preziosa lasciata alla letteratura italiana e anche a disposizione dei narratori italiani da Italo Calvino?

 

Nicola Lagioia: L’uso dell’immaginazione (oggi poco praticata) e la bellezza di certe immagini. Anche l’uso della ragione, empatico, a volte amaro, ma mai apocalittico. Da questo punto di vista, è un’eredità più difficile da gestire rispetto a quella di Pasolini. Non pochi post-pasoliniani (e sono una marea) trascorrono le giornate a stracciarsi le vesti senza preoccuparsi di combinare niente di concreto: l’apocalisse è appunto il loro alibi per non mettersi seriamente in gioco. I (pochissimi) post-calviniani degni di questo nome ho sempre l’impressione che si preoccupino invece di costruire qualcosa, con fatica, umiltà, e pochi narcisismi. Insomma, prendono seriamente il finale de Le città invisibili, l’impegno a lavorare per difendere e dare spazio al non-inferno dei viventi, dove c’è. Parlo come credo si sia capito dell’eredità e non delle opere in sé. Accattone, per dire, resta un film magnifico.

Chiara Valerio: I suoi libri. Io non credo alle intenzioni degli scrittori, anche quando le hanno. Anche quando, come Calvino, hanno dimostrato di avere idee e intenzioni, oltre che narrative, editoriali. I suoi libri in senso lato dunque. Quelli che ha scritto, quelli che ha pubblicato, quelli che ha affrontato criticamente e sui quali ha scritto. Forse la cosa che mi piace pensare di Calvino, o che ha lasciato a me, è che uno scrittore è prima di tutto un lettore.

Francesco Pacifico: Calvino ha fatto sentire che la letteratura era un gioco serio, un apprendimento permanente della grammatica e della retorica: unendo ogni genere dalla favola al romanzo all’esercizio di stile all’esperimento al saggio, e rassicurando i lettori e intellettuali più sensibili che lo stava facendo per il sommo bene.

Giovanni Montanaro: Senza dubbio la ricerca della grazia, delle leggerezza. La sensazione che ogni storia è uno stupore. A livello più personale, una sua prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno in cui, analizzando quel suo libro a quasi vent’anni dalla pubblicazione, anche per giustificarne la diversità rispetto alla produzione successiva, Calvino dichiara che ogni tanto esistono dei momenti in cui ci sono delle storie che sono le uniche che devono essere raccontate; nel suo caso, la resistenza. Io mi domando sempre: che storia dovrei raccontare?

Rossella Milone: Oltre ai suoi libri? Direi lo stile. Il modo in cui combina le parole dentro le frasi. Almeno per me, come narratrice, è sempre un insegnamento a cui non mi sottraggo, ogni volta che lo leggo: quella sua idea di leggerezza e sintesi, di rapidità del pensiero ottenuto unicamente attraverso l’uso esatto e visibile delle parole. Mi è utile e, soprattutto, mi fornisce un raffronto esemplare rispetto al quale ne esco sempre una scrittrice nuova. Dopo aver riletto qualcosa di suo, come una monella finisco per andare a cancellare e cancellare le troppe parole che ho scritto io.

 

Dove la scrittura di Calvino ha più saputo incidere nella società italiana?

 

Nicola Lagioia: Faccio un titolo: La giornata di uno scrutatore.

Chiara Valerio: Ha inciso su ciascuno dei suoi lettori e dunque sulla società. Siamo stati Cosimo Piovasco di Rondò e siamo stati il visconte dimezzato, ma, spero, ognuno da solo, ognuno per conto suo. Pensi che noia la letteratura che agisce sulla società… sulla moltitudine… no, no, per carità.

Francesco Pacifico: Da nessuna parte. Però è bello che rispetto a quanto non viene letta nel mondo la letteratura italiana del novecento, la scrittura felice di Calvino è un patrimonio per tutti.

Giovanni Montanaro: In due sensi totalmente opposti. Da una parte, nelle sue scelte, nella sua integrità, Calvino è di stimolo per chiunque voglia essere, oltre che scrivere. Dall’altra, ha saputo rigenerare patrimoni popolari, semplici, dai tarocchi alle favole, senza alcuno snobismo, e per questo ben più di altri rappresenta una voce amata da tanti.

Rossella Milone: Nell’immaginario. Di Calvino si parla spesso dell’impegno politico e civile, e va bene. Solo che, secondo me, c’è qualcosa che va oltre, che risiede unicamente nelle storie che racconta. Calvino lo leggono tutti, perché lui ha avuto questa capacità di sdoppiare la narrazione e renderla ambivalente: da una parte la pura affabulazione in cui ognuno riesce a trovare qualcosa di sé, dall’altro un livello più profondo in cui si celano le strutture sociali più complesse, che va a indagare con l’occhio dell’intellettuale. E’ una combinazione difficilissima, questa. Eppure ha generato storie che si sono imposte nell’immaginario di tutti, come solo certe favole sanno fare.

 

Quale lascito di Italo Calvino risulta oggi invece un fardello insostenibile dagli scrittori e in generale a quale peso costringe un intellettuale che è stato così determinante nella vita culturale italiana e internazionale?

 

Nicola Lagioia: Non ci sono fardelli insostenibili. Per ciò che mi riguarda c’è forse un po’ di distanza dal forte (per me troppo) elemento pedagogico presente nella Trilogia.

Chiara Valerio: Posso rispondere per me. Non trovo il fardello di Cavino insostenibile. Sono nata in un mondo in cui Calvino aveva già scritto e questo ha significato che il mio mondo era fatto anche delle parole di Cavino. C’erano i pomodori, la bicicletta, e c’era Il sentiero dei nidi di ragno. Non posso trovarlo insostenibile, per me era un paesaggio naturale.

Francesco Pacifico: Per togliersi di dosso il peso di questi giganti, e sentirli più vicini, basta leggersi la loro corrispondenza. Di recente ho letto l’apparato critico di un libro di Natalia Ginzburg: le lettere di complimenti, rassicurazioni, richieste e piacerini che si scambiavano tutti, con Calvino al centro, sono del tutto simili alle mail che girano adesso. Calvino che spinge un romanzo poco riuscito della Ginzburg nelle lettere agli amici e poi le scrive per rassicurarlo che il tale collega illustre ha capito è divertente (Natalia Ginzburg peraltro non gli crede, non crede alla sincerità dei commenti raccolti da Calvino). Insomma Calvino era un genio ma non un santo, era inserito nei meccanismi. Pensarlo così ci aiuta a sentirci meno schifosi per le nostre partite iva.

Giovanni Montanaro: Se si dovesse fare un paragone con chi ci ha preceduto, ognuno di noi dovrebbe smettere di scrivere. Ma non lo farà. Diciamo che è davvero difficile ritrovare quel livello di grandezza e coerenza in un’epoca come la nostra, fortunamente post-ideologica, ma che fa anche molta fatica a trovare un orizzonte più ampio del senso di quel che si fa.

Rossella Milone: Più che un peso, io noto che c’è un’incapacità. Calvino riusciva ad avvicinare una visione politica e civile della società alla letteratura in modo spontaneo e semplice. Il suo ricordo, la sua esperienza, la sua osservazione erano un metodo di comprensione del mondo. Ma tale comprensione è sempre e solo finalizzata a una cosa: all’affabulazione. Per cui lo sguardo dell’intellettuale raramente finisce per contaminare quello del narratore, piuttosto coincidono, ed è sempre al servizio della storia e della scrittura.  Il sentiero dei nidi di ragno ne è un esempio. Questa postura dello scrittore è qualcosa che, per me, conta moltissimo per chi fa narrativa. E oggi mi pare che siano pochi gli scrittori che riescano a coniugare in questo modo questi due aspetti interpretativi della realtà.

 

La letteratura è oggi davvero totalmente periferica al dibattitto publbico? O dopo Calvino c’è ancora possibilità di costruire un percorso letterario identitario e reputazionale?

 

Nicola Lagioia: Credo che la letteratura non sia periferica rispetto al mondo attuale. Se lo è rispetto al dibattito pubblico, i padroni del vapore del dibattito pubblico hanno terreno da recuperare.

Chiara Valerio: L’identità è asfittica e la reputazione uno scrittore la costruisce, se è in grado, se è forte, se è coraggioso, se è puro (se insomma è un cavaliere di Artù), con quello che scrive. Con i libri che legge e che scrive. Lei pensa che esista un dibattito pubblico con una complessità linguistica tale da consentire un incrocio di qualsivoglia natura con la letteratura? No, io non credo che esista più il dibattito pubblico. Troppi superlativi, troppe tragedie, troppe apocalissi con figure. L’italiano non sopporta i ragionamenti per superlativi e troppo paratattici. Senza le causali e le temporali non abbiamo il passato e il futuro, non c’è il tempo, senza il tempo come può esserci dibattito pubblico?  Poi però penso che Concita de Gregorio, con Pane Quotidiano, con la quale lavoro da anni, ogni giorno parla di un libro, in televisione – che è un luogo lontanissimo dai libri – ma lo fa e lo fa bene e questo aumenta la possibilità di ricreare un dibattito pubblico con i libri al centro. E penso che alla radio, a Radio 3, con Ad alta voce, abbiamo la possibilità di mandare in onda romanzi bellissimi e fondativi letti da grandi attori e che qualcuno che vive in un paese dove le librerie non ci sono e nemmeno i supermercati con i libri nei cestelli, e le biblioteche – Scauri, dove sono nata alla fine degli anni settanta era quasi così – può accendere la radio e ritrovarsi nella Russia dei coniugi Karenin, o a Macondo. E penso che il lavoro editoriale in una casa editrice come nottetempo – lavoro lì dal 2008 – mi dia la possibilità, attraverso i manoscritti, che cosa importa alle persone che scrivono. E queste sono forme molto private, credo, ma spero efficaci, di tentare di ristabilire le condizioni al contorno per ritornare a un dibattito pubblico. Ecco, forse, per tornare all’eredità di Calvino, mi piace pensare che abbia fatto capire come mettere sé stessi come lettori a disposizione della società, e attraverso mezzi di comunicazione che impongono linguaggi diversi, sia un gesto civile. Ma non vorrei farla troppo lunga.

Francesco Pacifico: Il nostro paese cerca sempre figure morali di riferimento. In questi anni, diversi intellettuali, a diversi livelli, ci sono riusciti: se penso a Saviano, a Piccolo, a Murgia, per dire tre casi molto diversi, che difficilmente vengono stimati dalle stesse persone, mi pare che gli intellettuali vengano ancora ascoltati.

Giovanni Montanaro: La letteratura non può mai essere periferica. Gli autori, forse, sono periferici. Dipende dal fatto che ci sono state generazioni più ricche, ma capita anche nel basket o nel calcio, non esistono solo le scuole ma anche i talenti. Dipende anche molto da un’assenza di coraggio, da una assenza dal fronte, che non è solo la politica, ma sono anche, per esempio, i terremoti, le esondazioni, la povertà.

Rossella Milone: Nella percezione generale sì, ma solo perché la letteratura non è sempre credibile. Ma, in realtà, la letteratura è ovunque, sempre; se non si rinuncia all’osservazione, a uno sguardo lucido e onesto, alla complessità, la società assorbe la letteratura, e la narrativa in particolare, per osmosi. La letteratura non deve avere un ruolo nel dibattito pubblico, ma deve farne parte attraverso le persone che leggono, attraverso la sua capacità di fornire strumenti, di rendere più attive le coscienze della gente. E’ il lettore, con lo strumento della letteratura, che rende pubblica la sua funzione. Calvino è riuscito a creare questa osmosi, perché, soprattutto con i testi degli anni ‘60, ha cercato e creato un rapporto dialettico con il lettore. Questo, per me, non deve rappresentare un ostacolo, piuttosto un’opportunità per costruire la propria strada di narratore o di lettore. La tradizione, sia per chi scrive che per chi legge, non deve essere una montagna inaccessibile, ma un sentiero che ti porta su.

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