Letteratura
Tre domande che il corsaro Pasolini ci ha lasciato
Pier Paolo Pisolini torna con meno frequenza sulle pagine dei giornali. Ci torna soprattutto intorno all’anniversario della morte. Anche oggi ci è tornato con una differenza rispetto ai toni e alle immagini di quarantacinque anni fa quando il suo corpo venne ritrovato. Allora quella morte apparve non solo coerente con uno stile di vita, ma anche cercata e forse preannunciata dalle scene di Salò, il film uscito postumo nel 1976.
Oggi la dimensione delle scelte private di vita di Pasolini rimane in penombra – pur non risultando fugata la morbosità visiva dello strazio sul suo corpo (la stessa morbosità che Pasolini individuava nella tolleranza come sentimento discriminatorio nei confronti dei diversi e per tutti degli omosessuali) – e si affacciano altri temi. La metamorfosi del panorama umano e ambientale italiano, oppure la questione della “fine del mondo” e dunque della interruzione di continuità nella storia civile e sociale italiana Una frattura che è prima di tutto la fine della continuità padri/figli.
Il tema è quello legato alla “scomparsa delle lucciole” (uno dei testi pasoliniani più citati uscito sul “Corriere” nel febbraio 1975 e ricompreso poi in Scritti corsari), una espressione con cui Pasolini intendeva descrivere sinteticamente la trasformazione e il conseguimento del benessere come espansione dei consumi, ma non come estensione e soddisfazione di beni pubblici.
Il rischio tuttavia è che quella morte – e soprattutto quella vita – a lungo guardate con circospezione e sospetto entrino in una sorta di Pantheon e di melassa da cui difficilmente poi sarebbero sottraibili. Oppure subiscano l’esito contrario in nome di una opposta, ma identica, campagna di sensibilizzazione a proposito dei presunti “cattivi maestrI” da “mettere in castigo”.
Si possono individuare tre diverse questioni, al centro delle quali la figura di Pasolini continua ad essere rilevante per la nostra quotidianità indipendentemente dal dichiararsi concordi o meno con il profilo interpretativo che egli proponeva.
La prima riguarda le questioni sollevate da Pasolini negli interventi scritti, soprattutto quelli dei suoi ultimi anni di vita (poi ricompresi negli Scritti corsari e in Lettere luterane). Sono i temi della fine del mondo contadino, della eclisse del mondo popolare, dell’avvento e della supremazia di un’economia del consumo dove povertà e miseria delle classi popolari sono interamente stravolte nei consumi. Temi da cui discende la possibilità di pensare un’economia “altra” dove sia proponibile un’idea diversa di sviluppo che valuti un rapporto rinnovato tra Nord e Sud del mondo (un linguaggio che sarebbe emerso solo negli anni ’80 e su cui ancora ci stiamo confrontando).
La seconda riguarda il ruolo pubblico che si ritaglia Pasolini, una fisionomia che somiglia a quella dell’intellettuale pubblico settecentesco e di cui nel corso del Novecento si sono progressivamente perdute le tracce. Ovvero la metamorfosi dell’intellettuale da propositore di progetto, da “legislatore”, a “commentatore” a “interprete”. E’ il percorso che chiama in causa (per comparazione) i molti “arrabbiati” che popolano le rubriche di opinione (televisive, radiofoniche, giornalistiche) ma che poi si fermano sulla soglia della responsabilità, o della propria esperienza pubblica. In breve il fatto di proporre temi, ma di sottrarsi al confronto sulla possibile trasformazione programmatica delle proprie opinioni. Insomma di non “mettersi mai in gioco”.
La terza riguarda lo stato di salute della stampa e più in generale del proporre riflessione pubblica in Italia, oggi. Pasolini ha avuto sempre un luogo dove scrivere e comunicare. Un luogo che non era suo. Pasolini, infatti, trovava ospitalità in palinsesti non suoi, in testate che erano spesso molto lontane dalla sua sensibilità, ma che non lo isolarono. Furono testate e periodici di natura diversa e anche di tendenza politica diversa. Ricordiamoli: “Vie nuove” settimane illustrato di notizie del Pci, giornale a carattere nazional-popolare; “Tempo” settimanale di area laica; “Paese sera” quotidiano di sinistra e su cui interviene criticando radicalmente l’impianto culturale della contestazione studentesca; il “Corriere della Sera” nel periodo della direzione Piero Ottone.
Pasolini non fu mai nelle condizioni di dover fondare un suo “luogo” – oggi diremmo una sua pagina web, un “blog”, un suo spazio comunicativo diretto con i suoi lettori consentito da una qualsiasi piattaforma social – per comunicare le sue riflessioni che spesso non erano né in sintonia con quelle della linea editoriale del periodico su cui scriveva. Spesso i suoi scritti coabitavano nella stessa pagina con figure molto lontane dalla sua sensibilità.
Noi possiamo oggi riflettere con sufficienza o con incertezza, con entusiasmo oppure con fastidio rispetto a ciò che Pasolini scriveva, ma non possiamo non stupirci – e qui sta la distanza rispetto a ieri e alla fine la vera questione che ancora “brucia” – del dove Pasolini pubblicava quelle sue opinioni. Ovvero del fatto che nessuno l’abbia espulso, censurato o zittito su quelle pagine.
Se ci fu uno scandalo Pasolini esso aveva valore e senso su due piani.
Il primo era riferito a ciò che scriveva Pasolini (per i temi, ma anche per lo stile).
Il secondo era in relazione al margine di autonomia che gli era garantita senza che per questo si profilasse una politica di scambio. In breve la libertà di scrittura di cui godeva.
C’è oggi nella stampa italiana d’opinione la stessa libertà?
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