Letteratura

Tranquillo prof, la richiamo io. Il nuovo libro di Christian Raimo

22 Settembre 2015

“La scuola è la società”. Abbasso chi vuole equipararla all’azienda con orrende e artefatte metriche prestazionali; ma anche chi la vuole rinchiudere in una bacheca di nostalgia delle aule che furono, dei bei tempi andati.

Fate scendere i fuggenti neo-prof alla Keating che salgono sui banchi e calpestano metodi didattici validissimi e consolidati nel tempo in nome di un soggettivismo carpe diem che gioca di sponda con la comunicazione fuggevole da social network: e però, anche abbasso i reazionari ragionieri dell’educazione che corporativamente fanno squadra intorno al minimo comune denominatore della propria, spesso mediocre, preparazione.

Insomma, sui temi della buona scuola, Christian Raimo ha imbastito una sua piccola, ragionata crociata, il cui baricentro non è la critica alle riforme del governo Renzi, ma proprio il merito della pedagogia. Ne parla, nella sua maniera sempre argomentativa e documentata, in una serie di saggi apparsi sul sito di Internazionale (come qui e qui); e ci imbastisce su anche una narrazione satirica, costruita a partire da un filone di post pubblicati sul suo Facebook, e ora apparsa in un volumetto Einaudi: Tranquillo prof, la richiamo io.

Il protagonista, autosoprannominatosi prof. Radar, è un patetico professore di liceo che racchiude in sé tutte le incoerenze e la retorica di un certo modo antipedagogico di intendere l’insegnamento. Come un novello David Brent di The Office, Radar è complessato, penoso e pure maligno. Pensa male di tutto ciò che non è se stesso e trova sbagliato ogni metodo educativo diverso dal suo. Per sorprendere gli studenti – la sua misura compensativa è del resto la meraviglia – fa lezione accovacciato sotto la cattedra o con le finestre spalancate con le pagine che svolazzano e i ragazzi che s’indispettiscono. La sua totale incapacità di comprendere le esigenze degli studenti e di mantenere la giusta distanza dalla classe avvia una gustosa dinamica tragicomica.

Il tutto è alimentato dalla debolezza patologica di Radar: catturare a tutti i costi l’attenzione dei suoi studenti. Radar telefona di notte, invia messaggi a raffica, si autoinvita alle gite scolastiche, parla male degli altri insegnanti. Mentre si dedica a tutte queste scemenze, però, perde via via il contatto con i ragazzi e con la realtà.


Christian, qual è un metodo corretto di valutazione del corpo docente?

Avere ispettori che certificano le mancanze. Ce ne sono, si paghino di più e si incrementino. Le mancanze sono quelle per cui non viene rispettato il contratto di lavoro. Per il resto sarebbe auspicabile una selezione molto qualificata nelle scuole di specializzazione e nei concorsi. Siano più qualificati e formativi di quelli fatti finora.

Fino a che punto serve la tecnologia in classe?

Dipende da cosa s’intende per tecnologia. Le fotocopiatrici? Per fortuna che esistono. Le lavagne elettroniche? Viva. Per il resto la scuola vuol dire il lavoro in classe con un rapporto vivo che è indispensabile per l’educazione. La comunicazione da social non esiste a scuola e non ha senso. Non ha senso anche l’idea che la tecnologia siano i supporti: pensiamo ai libri coi cd rom. Che senso hanno? Non è utile il supporto in sé. Ci sono strumenti utili, altri inutili. Il Wi-Fi serve. Il tablet molto limitatamente.

“La moda della semplificazione a tutti i costi, del soggettivismo”: quali antidoti, come uscirne?

Con una pedagogia cooperativa. Peer education, didattica laboratoriale, difficoltà adatte al contesto. La scuola italiana insegna due cose fondamentali: a leggere saggi complessi e a interpretare testi di qualunque tipo.

Non è che l’ipersoggettivismo à la Keating fosse anche una reazione giustificata a un ipernozionismo accademico un poco vetusto vigente prima? E che nelle materie umanistiche ce lo si può permettere, almeno sotto al livello universitario/specialistico? L’articolo che sembra banale a Raimo può magari aprire prospettive a un liceale…

Può darsi che il professor Keating segni quella reazione, ma in Italia e nel mondo negli anni ’70 c’erano state così tante sperimentazioni che nel modello Keating vengono fraintese in nome del soggettivismo e della retorica dell’empatia.

Hai criticato il post virale del professore del liceo di Fermo che suggeriva un elenco “diverso” di compiti per le vacanze. Potresti stilare una lista di compiti per le vacanze per maestri?

No, ma potrei mettere insieme una serie di classici di classici della pedagogia. Dewey, Montessori, Lodi, Visalberghi, Vygotskij.

Un’ultima domanda: qual è una poesia non retorica e imprescindibile in classe?

Non saprei dirti. Insegno filosofia apposta.

tuonoraimo

 

Ogni inizio scolastico è sempre duro. Certo le vacanze sono un periodo importantissimo, nel quale però qualcosa si smarrisce: il senso d’appartenenza alla classe. Stimoli, stimoli, stimoli, e poi ai ragazzi che cosa rimane? Un pugno di mosche che gli solleticano la mano e lasciano «il deserto della mente».

Vi ricordate quel film meraviglioso, L’attimo fuggente? Ancora piango al ricordo delle centinaia di volte che l’ho visto. Che cosa offriva quel professore ai propri allievi se non la passione fino in fondo, il senso sacro della «vita della scuola»? Perché, se posso dirvi la Verità con la V maiuscola: una guida, questo vogliono i ragazzi. Ma anche un maestro, un amico, un mito.

Un capitano coraggioso, capace di buttarsi con incoscienza dentro i flutti del mondo e salvarli uno a uno dai «gorghi» del dolore sociale. Se non trovano questo capitano cresceranno soli e disperati.

Noi professori ogni tanto dovremmo prendere i ragazzi per mano, fargli sentire la nostra vicinanza. Guardarli negli occhi, fargli capire che le loro angosce sono le nostre, ma che insieme, infondendoci uno spirito di fratellanza, ogni paura del futuro può svaporare.

La verità è che certi elementi dalla scuola andrebbero eliminati. Oggi, per esempio, ho perso tutta la giornata dietro al collegio docenti. Chiacchiere, burocrazia, «il brutto potere»… I collegi docenti sono l’«agglomerato assoluto» del nulla.

Per fortuna ho la capacità di «volare via» con la fantasia, e mentre i colleghi tipo la Romiti e Tassinari si scannavano sulle decisioni da prendere, io pensavo che tutte queste scartoffie che dobbiamo compilare per oscuri decreti ministeriali dovrebbero bruciare in un fuoco purificatore.

Basta registri, basta verbali da redigere! Vorrei strappare tutta questa carta in mille pezzettini, lanciandola nel vuoto interstellare e mostrare cosí la sua inutilità. A partire dalla pratica piú inutile tra tutte le pratiche inutili dell’asfissiante burocrazia scolastica: la programmazione.

Come si può «programmare» la vita scolastica? Siamo forse robot di un mondo distopico? Dobbiamo essere capaci di «ascoltare il cuore» che batte anche in una classe chiassosa, e intuire quali sono i bisogni che albergano nel profondo dell’anima di ogni studente.

E invece ecco Canepari, quella d’italiano, che ciancia con me per fare delle lezioni multidisciplinari, o De Marchi, quella di inglese, che vorrebbe sapere se ho pensato a delle misure compensative per i ragazzi dislessici… Le vorrei rispondere: Sai qual è la mia misura compensativa ? La meraviglia! Poter stupire i ragazzi e toglierli dalla routine suicida della loro vita di adolescenti, portare uno shock rivivificante!

Lo so, lo so che in questa battaglia sono solo… Ma so anche che alla lunga vincerò.

E i ragazzi tra vent’anni verranno a ringraziarmi.

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