America
Tradurre Amanda Gorman nell’Europa multietnica, post-welfare (e senza sinistra)
Una poesia americana
Quando la giovanissima poetessa afroamericana Amanda Gorman ha letto la sua poesia The hill we climb nel corso dell’inauguration di Joe Biden, era evidente a tutti che era nata una stella. Una nascita in mondovisione, per così dire, perché ciò che stava accadendo a Washington era seguito dai media di tutto il mondo. E in virtù dell’ascendente che la cultura statunitense liberal esercita sulla cultura progressista europea, e in generale occidentale, era ovvio che il fulgore della nuova stella non avrebbe brillato solo in Nord America, ma anche nel Vecchio Continente, grazie anche a quei media e apparati di potere europei alla continua ricerca di simboli progressisti ma a bassa carica sovversiva, per così dire.
Non è una critica alla Gorman, sia chiaro: leggere la sua poesia, magari ad alta voce, in una piazza di qualche contea repubblicana del sud (magari dove Donald Trump ha preso cinque o sei volte i voti di Biden), specie in un momento storico segnato dalla radicalizzazione del GOP, non è come leggerla in un borgo provenzale, padano o bavarese.
È vero, come è stato osservato dalla traduttrice ed editor Martina Testa in un’intervista per Dinamo Press, che quella della Gorman non è “una voce sovversiva che speaks truth to power”. Tuttavia è anche vero che la soglia della tolleranza in certe contee e ambienti statunitensi di destra è molto bassa, e versi come quelli della Gorman, con i suoi riferimenti ad esempio alla schiavitù e alla madre single, possono infiammare senz’altro elettori ed esponenti della destra americana più becera; quella stessa destra razzista o cripto-razzista che tuona contro la victimhood culture dei neri, non tollera che si parli delle conseguenze di lunga durata della schiavitù, e crede ancora all’oscena leggenda reazionaria della welfare queen.
The hill we climb ha molto più significato in America che in Europa, un po’ come la Canzone del Piave ha una potenza, un significato, un valore diversi se la canta un coro di alpini a Treviso, o invece degli studenti di Italian studies in California. Se si sradica un ulivo del Salento, non si può pretendere che attecchisca in Maine, se non forse in una serra (quindi artificialmente),
Ovviamente la poesia è una poesia profondamente americana, sin dal titolo. Nel 1630 il puritano John Winthrop lesse, di fronte al primo gruppo di aspiranti coloni della Baia del Massachusetts, un sermone dal titolo A model of Christian charity. La conclusione, we shall be as a city upon a hill. The eyes of all people are upon us, con il suo rimando al Discorso della Montagna (“non può restare nascosta una città collocata sopra un monte”), ha fornito un’immagine di grande potenza al discorso politico degli Stati Uniti da John Fitzgerald Kennedy in poi, contribuendo a perpetuare il mito eccezionalista che ad esempio presidenti come Bill Clinton, George Bush jr. e Barack Obama hanno continuato a nutrire (si pensi all’ultimo bestseller di Obama A promised land, il cui titolo riflette la convinzione dell’ex presidente che gli Stati Uniti costituiscano, nonostante tutto, un beacon of hope, e che una più perfetta unione sia ancora alla loro portata).
La poesia della Gorman, con i suoi rimandi agli sforzi per creare a union that is perfect, alla speranza, alle Scritture (in particolare a Michea: “siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico, e più nessuno li spaventerà”; versetto prediletto da George Washington), attinge sia alla retorica obamiana che all’ecumenismo bipartisan, che per certa destra è in sé sinonimo di ipocrita e odioso buonismo; e tuttavia senza citare esplicitamente Donald Trump, contiene una chiara denuncia del trumpismo, forza distruttiva che solo pochi giorni prima dell’inauguration ha rischiato di far scivolare nel caos l’intera nazione.
Una poesia profondamente americana, dunque, e profondamente politica; sovversiva nei limiti, ovvio, concessi da una cerimonia di insediamento di un presidente di 78 anni. Una poesia che si candida a diventare un feticcio per milioni di giovani attivisti liberal (a maggior ragione se di sesso femminile, e di origini africane, native o asiatiche) che sognano di intraprendere una carriera politica, e diventare un giorno presidente degli Stati Uniti. Del resto la Gorman, nella poesia, lo scrive chiaramente: lei stessa, discendente di schiavi neri e figlia di una madre single, può sognare di essere eletta presidente. E in effetti la poetessa ha già dichiarato ai media di voler partecipare alle presidenziali del 2036!
Era ovvio che la poesia della Gorman sarebbe subito diventata un caso letterario, e che gli editori di tutto l’Occidente avrebbero fatto a gara per pubblicare le sue poesie. Personalmente nutro dubbi su quanto The hill we climb possa essere pienamente apprezzata da una sedicenne di media cultura di Amsterdam, Palermo o Camberra: che ne sa un teenager della retorica di JFK? Del retaggio puritano del New England?
Tuttavia ciò conta poco. La Gorman, in quanto cantrice di una giornata storica ed eccezionalmente mediatizzata, ha acquisito non solo una notorietà straordinaria, ma il prestigio, il carisma oserei dire, di chi condivide il palco con i più potenti. La sua opera, quindi, è altamente e facilmente valorizzabile in Europa dal poderoso arsenale tecnico degli stregoni del marketing, specie in virtù della sudditanza della cultura continentale, in primis italiana, a quella statunitense.
La significazione commerciale e il mito dell’Autenticità
La versione occidentale contemporanea di capitalismo può essere in parte riassunta nella definizione di “macchina di reinterpretazione senza limiti” fornita da Gilles Deleuze. La poesia della Gorman ha un certo livello di sovversività negli Stati Uniti, dove la società è nel complesso spostata talmente a destra che un borghesissimo docente di diritto costituzionale quale Obama può essere visto da taluni come un radicale, e il socialdemocratico Bernie Sanders come un bolscevico. Ma come l’ulivo del Salento rischia di morire nel Maine, così la stessa poesia ha poca o nessuna capacità sovversiva in Europa. E tuttavia un marketing e una comunicazione di alto livello possono far percepire come gesto di ribellione il mero acquisto del libro che contiene la poesia!
Ha ragione la Testa quando dice: “non ci vedo poi niente di strano nel fatto che Amanda Gorman diventi un bestseller negli Stati Uniti […]; non capisco invece perché tutto il mondo debba leggere le poesie di Gorman”. Le leggeranno ahimè milioni di giovani europei di buona famiglia che, nutriti di serie TV, film, canzoni e romanzi statunitensi (spesso incentrati sul liceale salvifico, sull’adulescens sapiens) vedono nella quasi-coetanea Gorman il prototipo della ribelle accettabile… dai genitori, dai professori, dai futuri datori di lavoro, dalla comunità, dai media sempre pronti a stigmatizzare ogni aberrazione giovanile (nell’Occidente gerontocratico c’è veramente poco spazio per la sovversione giovanile).
A differenza della Gorman i teenager svizzeri, neozelandesi o inglesi non possono sperare di diventare presidenti degli Stati Uniti, ma possono sognare di essere ripresi dalle telecamere di tutto il mondo, proprio come è successo con la giovane poetessa di Los Angeles, e diventare delle star. E del resto l’attenzione che i media globali hanno dedicato alla cerimonia di insediamento di Biden fa impallidire qualsiasi talent show.
La trasformazione in simbolo di The hill we climb è funzionale alle strategie di marketing. E si sa, i simboli si collocano nella dimensione metarazionale. Vanno accettati o rifiutati, non discussi. Essi hanno capacità sovrannaturali, magiche, emanano protezione e maledizione, luce e tenebra. Separano il puro dall’impuro, il sacro dal profano, la verità dalla menzogna. Non c’è bisogno di essere Lévi-Strauss per sapere che il puro è sinonimo di massima energia, l’impuro depotenzia, depaupera di forze vitali. Sino a pochi decenni fa le donne che facevano il pane incidevano delle croci sulle pagnotte, per benedirle e assicurarne una corretta crescita (lievitazione); nel 2021 certuni si fanno tatuare sul corpo croci, ideogrammi di buona salute, leoni stilizzati, per proteggere il proprio corpo e conferirgli forza.
I simboli sono sempre stati strumenti di compattamento, controllo e rassicurazione sociale, ma oggi il marketing ha fatto della simbolificazione artificiale una delle sue armi più efficaci; e tale processo di simbolificazione ha come condicio sine qua non la celebrata Autenticità: solo ciò che è vero può essere portatore di Verità. Si simbolificano non solo i brand, ma i beni di produzione industriale, a cui si danno significati politici, morali, quasi cosmici: chi acquista il tal tipo di scarpa si batte contro il razzismo, e chi compra un certo tipo di agendina è un viaggiatore alla ricerca della verità. I ragazzini e le ragazzine europee che solidarizzano con il movimento BLM, e che sono spaventati dalla struttura patriarcale e gerontocratica della società, sono comunque dei consumatori, basta trovare per loro il prodotto giusto…
E così la poesia profondamente americana della Gorman, pur perdendo moltissimo significato nel diverso contesto culturale e politico europeo, lo riacquista artificialmente grazie alla simbolificazione che il complesso editorial-mediatico mette in atto. The hill we climb diventa in questo modo la voce delle donne in lotta contro il patriarcato, dei neri in lotta contro gli oppressori bianchi, della ribellione dei giovani contro il potere dei vecchi; nella lotta del bene contro il male, della Verità contro secoli di menzogna, chi compra il libro della Gorman si schiera.
Una chiara sovrasignificazione. Un europeo dovrebbe leggere The hill we climb soprattutto come il contributo progressista di una giovane donna (di indubbio talento) al miglioramento del proprio paese: un invito a essere migliori, a coltivare le virtù del multiculturalismo e del dialogo, e a non tradire i valori dei primi coloni e dei Padri fondatori; a scegliere insomma la speranza anziché la paura, l’unità invece delle divisioni, per dirla con la retorica obamiana.
Come si è detto, ciò che è portatore di Verità deve essere profondamente vero, cioè autentico. Dunque perché stupirsi che un’industria editoriale decisa a fare di libro un simbolo da milioni di copie, non accetti che a tradurre le poesie della Gorman dall’inglese al catalano sia un bianco ormai maturo? A La Stampa il poeta Víctor Obiols ha detto: «Mi hanno detto che il mio profilo e il mio curriculum non erano adeguati. Sono uomo, bianco, non più giovane e pure catalano. Avevo finito e consegnato il testo».
La ferrea del marketing simbolificante non ammette contrasti stridenti. Qualcuno potrebbe obiettare che il meticciato è anche questo, la coesistenza dei contrasti e delle differenze che arricchiscono, ma evidentemente accostare la vecchiaia alla giovinezza, il mascolino al femminino, l’eurodiscendenza all’afrodiscendenza non va bene, rischia di minare alla radice la valenza simbolica del libro… Perché appunto va a colpire la sua (ostentata) autenticità, e quindi la Verità di cui esso è veicolo.
Siamo in un’epoca segnata dalla crescente centralità dell’autore, e della sua vicenda biografica. Se i libri di molti VIP televisivi scalano le classifiche, non è per l’eccelso livello dei loro contenuti, ma perché tali testi sono percepiti come autentici da lettori che sentono di conoscere (grazie alla TV e ai social media) i loro autori, e neanche sospettano che molti di questi libri siano scritti da efficienti e abili ghostwriter. Al giorno d’oggi pochi autori possono permettersi il lusso di Elena Ferrante, mera voce che racconta una storia. I lettori non sanno nulla della Ferrante: se è una donna o un uomo, se è un’insegnante in pensione, una veterana dell’editoria o una storica contemporaneista, se è napoletana o magari casertana o romana.
La Ferrante è l’eccezione che conferma la regola: in un mondo di fake news, dall’autore si pretende autenticità, non capacità immaginativa, come se la letteratura fosse stata trasformata in una delle ultime ridotte non del verosimile, ma della Verità (certo, una Verità intima, fragile e soggettiva, come si conviene a questi tempi). Qualche anno fa il grande umorista David Sedaris ha svelato che un giornalista di un’importante testata dell’East Coast si era messo a verificare ogni dettaglio, anche il colore della carta da parati, delle vicende familiari che raccontava nei suoi libri; un fact-checking maniacale di cui il lettore sano di mente non avverte, probabilmente, alcuna necessità. Nella già citata intervista la Testa ha notato a ragione che “la letteratura sembra sempre meno letteratura di invenzione e sempre più testimonianza del sé”.
Il culto per l’Autenticità rischia di uccidere la letteratura. Se Ariosto vivesse nella Ferrara del 2021, il suo manoscritto non solo sarebbe oggetto di editing ferocissimi (onde ricondurlo a quello standard linguistico-narrativo che piace così tanto a molti grossi editori italiani), ma una volta pubblicato il suo “Orlando furioso” finirebbe nello scaffale del fantasy, insieme a tanti tomi fatti con lo stampino, e che traggono la loro legittimazione dalla conformità a canoni di inautenticità ormai codificati (e che subiscono grosse variazioni solo al variare dei gusti del pubblico). Oggi Ariosto non potrebbe essere un grande scrittore, perché non c’è nulla di autentico nel suo “Orlando furioso”, e allo stesso tempo si distanzia troppo dal fantasy mainstream.
Traduttori e minoranze
È stato cambiato il traduttore anche per la versione in lingua neerlandese del libro della Gorman. A tradurre doveva essere, inizialmente, Marieke Lucas Rijneveld, autrice olandese classe 1991, che nel 2020 ha vinto il prestigioso International Booker Prize. A differenza del caso catalano, l’indignazione da parte di molti attivisti, scrittori e traduttori neerlandesi di origine africana nasceva dal fatto che si preferiva la popolarità alla competenza: la Rijneveld non vanterebbe infatti una buona padronanza dell’inglese.
Avendo lavorato nell’editoria vari anni, sono consapevole che il vissuto di un traduttore possa essere decisivo nella scelta dello stesso. Del resto se nel Medio Evo (e ancora in età moderna) le potenze europee sceglievano spesso i loro dragomanni nel Vicino e Medio Oriente tra uomini con un genitore turco, persiano, armeno, arabo, circasso e così via, era proprio perché a Venezia, Genova, Madrid o Londra si era compreso che non basta parlare una lingua, per essere un buon interprete, traduttore, intermediario. Una donna o un uomo che ha passato la vita a transitare da un mondo all’altro (o altri: immaginiamo una letterata nata e cresciuta a Rotterdam, figlia di immigrati marocchini, che ogni estate si reca dalla nonna nell’Ifrane) vanta probabilmente un bagaglio culturale ed esperienziale, una sensibilità, una sofisticatezza che una coetanea olandese specializzata in lingua araba si sogna.
Ed è vero che talvolta gli editori, per accrescere la capacità attrattiva del libro stesso, danno incarichi di traduzione a scrittori famosi e non a traduttori professionisti. Ma io non penso che si possa scartare un traduttore solo perché bianco anziché nero, di sessant’anni invece che di venti. Penso anche che la Gorman abbia appreso delle polemiche europee dai media, e che non ne sia stata contenta. Come ha detto lo scrittore e traduttore Francesco Pacifico, si tratta di un caso di “fanatismo imprenditoriale”. Su Internazionale, riferendosi al caso olandese, la scrittrice e traduttrice Claudia Durastanti ha scritto: “La scelta dell’editore è stata molto cinica e un po’ miope, e il suo cambiare idea dopo le polemiche lo è stato altrettanto, perché risponde a operazioni di ingegneria per cui i lettori sono in realtà gruppi di consenso”.
Le polemiche nei Paesi Bassi e in Spagna hanno avuto come principale conseguenza quella attirare sul libro l’attenzione di milioni di europei. In Italia alcuni giornali e commentatori di destra ed estrema destra hanno gridato allo scandalo, esagerando come al solito. Ma la loro reazione, al pari ad esempio delle proteste nei Paesi Bassi, dimostra che si stanno toccando alcuni nervi scoperti.
È ovvio che le minoranze sono sottorappresentate, nella cultura europea come in quella americana. L’editoria statunitense, per esempio, è dominata da una ristretta élite newyorkese dove i bianchi con un certo tipo di percorso accademico alle spalle prevalgono nettamente, come sa chiunque abbia un minimo di familiarità con la letteratura statunitense contemporanea. L’editoria francese, a sua volta, è dominata da Parigi, con le sue cricche chiuse, le sue mode e le sue idiosincrasie così ben raccontate dall’ironica filmografia d’Oltralpe. Lasciamo perdere l’Italia…
Ma qual è la soluzione per dare più spazio alle minoranze? Fare come in America, dove al mito del melting pot si è passati a quello della salad bowl, e dove la valorizzazione dell’identità individuale è diventata l’alternativa alla rivendicazione di diritti universali, non è a mio parere l’unica risposta.
Un piccolo esempio. Quante volte ci è capitato, leggendo la biografia di questo o quell’attore famoso su Wikipedia, di incappare in un breve paragrafo dove sono elencate le sue origini etniche? Caio ha origini gallesi, irlandesi e polacche da parte di padre, afroamericane e native da parte di madre, Tizia è italiana da parte di madre, francese e slovena da parte di padre… Non è un caso. Negli ultimi decenni la parte più progressista dell’élite americana ha aderito con entusiasmo (seppur spesso con superficialità: essere italiani non è solo mangiare gli spaghetti o avere una villa in Toscana) al multiculturalismo promosso dalla Terza Via di Bill Clinton e Tony Blair.
Il mito del melting pot, in cui l’immigrato russo, gallese o moravo grazie al duro lavoro si fonde con il resto della società, diventando un cittadino americano con auto e casa di proprietà, è stato costruito nella prima metà del XX secolo, quando gli Stati Uniti conobbero uno straordinario boom industriale sostenuto da politiche economiche sempre più keynesiane. Per esempio alla Ford English School — creata da un colosso che voleva che i propri operai comprassero le auto che assemblavano — nel corso della cerimonia di diploma gli studenti si spogliavano dei loro abiti “etnici” (la panzera e la coppola dell’operaio siciliano, il caffettano dell’operaio ebreo askenazita) e dopo essere entrati in un grande pentolone ne uscivano vestiti tutti uguali.
Nella seconda metà del XX secolo, e in particolare dagli anni Novanta in poi, ci si è invece concentrati sulle differenze. Sia chiaro: c’è molto di buono in questo. Dare spazio ai retaggi, alle tradizioni, ai retroterra culturali-linguistici e alle identità di tutti vuol dire non solo rispettare la dignità e il vissuto di ogni individuo, ma anche riconoscerne la bellezza del paesaggio interiore, e soprattutto la capacità di contribuire alla società in maniera originale e creativa. Però non si vive di meri riconoscimenti, e quando con il riconoscimento (e la protezione legale dello stesso) si esaurisce l’intervento dello Stato, allora si profilano molti pericoli all’orizzonte.
I nuovi paradigmi multiculturalisti e di celebrazione dell’identità sono coincisi con un periodo di forte disimpegno pubblico nell’ambito del welfare, dell’edilizia sociale, della sanità pubblica, del lavoro sicuro, dell’istruzione superiore gratuita e così via. In altre parole, se i governi occidentali hanno portato avanti politiche (sacrosante) ad esempio a favore delle minoranze linguistiche, o delle persone LGBT, hanno allo stesso tempo smantellato (in tutto o in parte) quegli strumenti che garantivano un reale esercizio del diritto all’abitazione, all’istruzione, alla salute, al lavoro, allo sviluppo economico ecc.
Perché diciamolo: alle multinazionali che uno sia un pensionato conservatore di Houston, un’attivista lesbica di Berlino o un operaio italorumeno di Montebelluna importa poco; l’importante è che sia un consumatore, se possibile molto profilabile e perciò targetizzabile dagli algoritmi di reccomendation. Allo stesso tempo però, alle multinazionali piace più il laissez-faire che il welfare, il lavoro flessibile che il posto fisso, e lo Stato guardiano notturno che quello interventista e ficcanaso. Ecco, la Terza Via clintonian-blairiana ha aperto la strada al compiacente Stato guardiano notturno 4.0, la cui mission è preoccuparsi di difendere il diritto alla vita, alla proprietà privata, alla libertà di espressione e autodeterminazione di tutti, incluse le visible minorities, le sexual minorities ecc.
Lo smantellamento del welfare ha colpito sia le maggioranze declinanti (ad esempio quella che un tempo veniva chiamata “classe operaia”) che le minoranze emergenti. La riduzione del welfare è stato un duro colpo sia per il tornitore eterosessuale bianco che sino agli anni Novanta votava a sinistra, sia per la giovane madre single appena emigrata da qualche paese in via di sviluppo, sia per il ragazzo gay afrodiscendente che magari può sposarsi con il suo compagno, ma non può permettersi le rate dell’università.
La risposta alla smantellamento liberista del welfare doveva essere un nuovo universalismo socialdemocratico, non confinato all’ex proletariato bianco, ma a tutti i cittadini e aspiranti tali, nella miglior tradizione internazionalista e cosmopolita della sinistra europea. Ciò però non è successo, perché spesso era proprio la sinistra governista il braccio destro del credo liberista. L’estrema destra, dal canto suo, ha subito iniziato a teorizzare e fomentare una guerra alle minoranze, consapevole che poteva essere questo il grimaldello per scassinare l’antifascismo della classe operaia ex socialista ed ex comunista. Una guerra inizialmente in sordina, ma poi strumentalizzata dalla destra più mainstream per i propri scopi elettoralistici (sinché le due destre non si sono iniziate a fondere, ma questa è un’altra storia).
Il pane e le rose
Il punto vero è che serve il welfare. Più welfare per alcuni, molto più welfare per altri. La situazione dell’operaio di cinquant’anni che magari ha ereditato la casa dai genitori, ma che ha difficoltà a pagare le bollette, non è la stessa della giovane madre single che vive con il figlio in un monolocale condiviso e campa facendo la colf con una padronanza limitata della lingua del luogo. Fatto cento l’aiuto massimo che può dare lo Stato, all’operaio magari servirà quaranta, alla madre ottanta, al ragazzo gay venti, perché una volta laureato in ingegneria si troverà un lavoro decente; ma se a un certo punto all’operaio servirà ottanta (ad es. perché la sua azienda fallisce), il sistema deve essere sufficientemente reattivo e flessibile da dare ottanta anche a lui. Il punto non è dunque incasellare le persone e decidere chi è più svantaggiato, ma dare “a ognuno secondo i suoi bisogni”.
Alle politiche di discriminazione positiva implementate negli Stati Uniti (e in misura minore ad es. nel Regno Unito e in Canada) bisogna preferire l’universalismo del welfare, perché altrimenti sarà sempre una lotta tra poveri, e per ogni vincitore delle “Olimpiadi dell’oppressione” (una battuta della femminista americana Elizabeth Martínez) ci saranno cento sconfitti non meno oppressi di lei (o di lui). L’unica discriminazione dovrebbe essere tra chi ha bisogno, e chi non ne ha.
Sia chiaro: non la penso così solo io. Nei paesi nordici il welfare — tendenzialmente — o è universale o non è, e di recente l’economista francese Thomas Piketty ha scritto: “più in generale, le politiche di discriminazione positiva sviluppate a partire da categorie etniche negli Stati Uniti o nel Regno Unito […] Bisogna soprattutto sostenere le politiche sociali universali, senza le quali il cammino verso l’uguaglianza resterà un’illusione”.
Ovviamente sto semplificando. Non tutto è economia, non tutto è risolvibile con il welfare. Il ruolo della scuola, dell’università e della TV nell’educare il pubblico è cruciale, e soprattutto deve fare di più lo Stato, contrastando con la massima asprezza tutti i crimini d’odio e ogni forma di sfruttamento, e rimuovendo ogni ostacolo giuridico e burocratico che possa ostacolare una piena parità, e una reale fruizione dei diritti da parte di ciascuno.
In Italia si parla molto di ius soli (e ius culturae, che preferisco). Si tratta di una riforma a costo zero, per usare il gergo dei politici nostrani. Ma assicuro che molti cittadini non la percepiscono come tale. Prima della pandemia trascorrevo sui treni molte ore la settimana, specie su regionali nel quadrilatero Milano-Bologna-Bolzano-Venezia, e spesso ho affrontato l’argomento con passeggeri di ogni tipo: operai, pensionati, studenti pendolari, artigiani, poliziotti in pensione, capitreno, casalinghe, turisti. Ebbene, varie volte mi è stato spiegato, anche con una certa sufficienza, che “già la coperta è già corta per noi italiani, figuriamoci se diventano italiani pure gli albanesi, i marocchini, gli africani…”
In un’Italia dove la pubblica amministrazione assume sempre meno, la sanità pubblica è allo stremo, l’edilizia sociale agonizza, molti nostri concittadini vedono nei “nuovi italiani” dei concorrenti per risorse scarse. Personalmente non condivido, ma è davvero così sbalorditiva la loro paura? Una volta mi sono sorbito, su un regionale per Venezia, la sfuriata di una madre che si lamentava con me della classe del figlio, così piena di “moretti” e “cinesi” che gli insegnanti seguivano poco gli alunni italiani, e suo figlio riceveva scarsi stimoli e non faceva abbastanza progressi (dopo quell’episodio per alcune settimane smisi di attaccare bottone con i passeggeri).
È tragico, ma sinché l’economia non tornerà a generare abbondante occupazione di qualità, facendo uscire il nostro paese da una stagnazione che ormai si protrae da più di vent’anni, e sinché il welfare non tornerà a livelli di decenza, una parte significativa della popolazione — interiorizzato ormai il dogma ultraliberista della salvazione economica puramente individuale — continuerà a prestare fede ai sermoni xenofobi di chi aizza colletti blu, piccole partite IVA e pensionati contro gli immigrati e i “nuovi italiani”. Questi politicanti, ostacolando ogni forma anche embrionale di solidarietà di classe, si fanno de facto paladini di un sistema economico spietato, che magari cercano di rafforzare ancora di più proponendo l’introduzione della flat tax o la privatizzazione della sanità.
En passant, tengo a sottolineare che in Italia l’estrema destra ha dato un contributo fondamentale a costruire la dicotomia bianco italiano / nero straniero; è un’estrema destra a suo modo color blind, nel senso che non gli interessa minimamente distinguere tra chi magari proviene da un ex colonia italiana e chi dall’Africa australe, tra il rifugiato palestinese, il lavoratore originario del Bangladesh e l’egiziano in Italia per motivi di studio. Comprendere le vicende individuali, il quadro storico, la situazione economica e politica di questo o quel paese è irrilevante. Quel che conta è avere un facile bersaglio polemico, un capro espiatorio identificabile da un elettorato stanco, sempre più spaventato dai media e dalle difficoltà economiche quotidiane.
Anche il mondo dell’editoria deve affrontare il problema della scarsità di risorse, e di una fortissima competizione. Ciò non significa che l’editoria americana, spagnola, tedesca, australiana non debba pubblicare più voci diverse dal solito maschio bianco eterosessuale. In Italia bisogna dare senz’altro più spazio agli autori (e alle autrici) afroitaliani, o magari di origini asiatiche, balcaniche, arabe, centro- ed esteuropee, sudamericane… Non intendo solo testimonianze, sia chiaro. Ha ragione Igiaba Scego quando osserva, in un’intervista a Jacobin Italia, che si dà poco spazio alle voci narrative delle afroitaliane.
Mi domando però in che modo lo Stato italiano aiuti le case editrici che vogliono pubblicare più poeti italorumeni e scrittrici afroitaliane. E cosa si fa nei Paesi Bassi per le scrittrici e gli scrittori, i traduttori e le traduttrici originari del Suriname, del Marocco, dell’Indonesia, della Turchia? Cosa fa il governo federale negli Stati Uniti per gli autori ispanofoni, afroamericani, nativi, asiatici, e per gli editori che a queste comunità vogliono dare spazio? La risposta, a tutte e tre le mie domande, credo sia una sola: troppo poco. Le voci ci sono, basta non farle silenziare dalla crisi economica e dall’indifferenza.
Serve uno Stato innovatore per l’industria, ma anche uno Stato promotore delle lettere e delle arti. I precedenti storici ci sono: pensiamo solo al Federal Art Project, programma che durante il New Deal diede lavoro a migliaia di artisti, incluso un ebreo lettone chiamato Rothko, un olandese di nome De Kooning, l’afroamericano Sargent Claude Johnson, l’afroamericana Augusta Savage, I. Rice Pereira, il messicano Diego Rivera. È stato fatto in un periodo di minor prosperità economica e disponibilità tecnologica (come sa chiunque abbia letto Furore), si può fare di nuovo.
© di Gabriele Catania. Tutti i diritti riservati, il testo è stato pubblicato inizialmente qui.
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