Letteratura
Tra muri e mostri con Michele Mari
«Se tutti quelli che parlano di me avessero letto i miei libri…». Sarà autoironia, sarà radicato scetticismo: di certo Michele Mari, classe 1955, lo scrittore vivente più letterario e forse più cult d’Italia, concede poco all’ondata crescente di plausi e lusinghe che gli arrivano (anche sui social media, che non frequenta) da parte di schiere di lettori. Per cercare di fare breccia nel suo muro, meglio iniziare dalla mattonella più recente: Leggenda privata (Einaudi, 2017). Romanzo breve ma denso, in cui i nodi tematici della sua formazione fanciullesca, esperienza centrale nella sua visione del mondo, vengono finalmente sciolti, o per lo meno esplicitati. Sia pure partendo da un racconto-cornice tipicamente fantastico e mostruoso, Mari ricostruisce, con tanto di corredo iconografico, l’epopea della propria famiglia, inserita nell’avanguardia culturale milanese degli anni Sessanta e Settanta.
1. Leggenda privata. Dove Michele Mari scrive la sua autobiografia su commissione dei mostri.
Nacqui d’inverno, al nostro discontento. Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine (…).
Nel suo ultimo libro due Accademie di mostri le commissionano un’autobiografia. Perché questo espediente?
Ci possono essere due spiegazioni.
Una è legata al mio amore per la letteratura fantastica, nera: mi piaceva che ci fosse questo elemento. Siccome volevo scrivere anche dei dolori veri della mia vita e non volevo mescolarli con gli orrori del “genere”, ho sentito la necessità di tenere questi mondi separati. Mi è venuto allora naturale collocare l’autobiografia in una cornice di mostri, usare un complemento ludico che s’intrecciasse alla drammaticità altrimenti troppo secca e immediata dei ricordi.
La seconda motivazione può essere che in questi Accademici io abbia voluto tematizzare il mio pubblico, i miei lettori, i miei critici, che spesso mi hanno atteso al varco chiedendomi un libro serio sulla mia vita, che smettessi di baloccarmi, che tirassi finalmente fuori la verità nuda e cruda, sanguinolenta, non travestita, e allora è come se io avessi detto al mio pubblico: ecco, guardate in che condizione mi mettete, siete degli aguzzini che mi costringono.
I suoi attuali mostri sono organizzati in accademie. È uno sguardo satirico sul mondo della cultura?
No. Questi mostri fanno parte di una setta, di una casta esoterica, anche se evidentemente la parola Accademici richiama l’idea dell’Università, della critica, della stampa. Ho messo probabilmente insieme un po’ di cose, di fisionomie relative all’impazienza e alla curiosità a volte un po’ voyeuristica del pubblico, anche quello degli incontri che mi fa domande tipo: “Lei quando scrive ascolta o meno la musica? Scrive di sera o di giorno?”. A volte, soprattutto le signore, mi fanno anche delle domande a cui non so rispondere: “Cosa le costa mettere ogni tanto un lieto fine nei suoi libri?”. E allora mi verrebbe da dire: scriveteveli voi questi libri.
Come ha scritto a più riprese, le fa paura ”essere saputo”, essere conosciuto nel profondo e impazzire una volta messo a nudo.
Sì, lo dico a un certo punto nel romanzo: che pretesa che hanno di volermi smascherare quando io per tutta la vita mi sono fortificato come un mollusco che secerne la conchiglia intorno a sé di madreperla durissima, tutta la vita mi sono creato delle corazze scrivendo e adesso dovrei togliermi tutto, esibirmi? Sono convinto che la mia autobiografia sia equamente ripartita anche in tutti i miei libri precedenti.
Non vale un po’ per tutti gli scrittori?
Per alcuni sicuramente. Ci sono scrittori molto più riservati che si tengono più al di qua della pagina e altri, come Gadda, che sono sempre dentro alla pagina.
Perché il racconto si ferma alla giovinezza?
Mi è stato chiesto più volte perché la mia autobiografia finisca più o meno col servizio militare, con la fine dell’Università. Il motivo sta nel fatto che dopo, diventando uno scrittore, sono stato uno che si è nascosto e che si è fortificato a colpi di scrittura, e quindi scrivere di se stessi come scrittore sarebbe letteratura di secondo grado: scrivere di se stessi in quanto scrittori di se stessi. Piuttosto che scrivere di come io mi sono fortificato scrivendo ho preferito limitarmi alla parte tenera, alla parte indifesa, alla parte in cui maturavo a modo mio un destino da scrittore ma non lo ero ancora.
Nel romanzo racconta una scena abbastanza scabrosa sui suoi genitori (il designer Enzo Mari e la disegnatrice e scrittrice Iela Mari). Suo padre è vivente: non la imbarazza scrivere di lui?
Sì, mi sento ovviamente un po’ in imbarazzo. Non so che dire. Ho semplicemente sentito di dover scrivere adesso questo libro, e ovviamente senza chiedere permessi e senza concertazioni preventive.
Nasce da un antagonismo mai superato nei confronti di suo padre?
No, qualsiasi antagonismo è stato autorepresso sul nascere dalla mia sconfinata ammirazione per lui. Non l’ho scritto con nessuno spirito di vendetta e di rivalsa, anzi, l’ho scritto, anche se qualcuno troverà difficile accettarlo, con grande affetto e mi sembra con uno spirito magnanimo, non cattivo, non rancoroso, non pettegolo.
È la descrizione di un’immagine forte che resta cristallizzata negli occhi di un ragazzino.
Quello sì. La cosa è rimasta totalmente cristallizzata, come fosse un paesaggio.
L’unica ragazza di cui lei parla è una cameriera che i suoi familiari giudicano volgare. Si ritrova poi nel libro in un’altra veste.
Mentre le vite di tutti i miei familiari corrono parallele, disgiunte dalle vite dei mostri, questo personaggio tiene un po’ le due realtà assieme: è un personaggio reale della mia adolescenza che non ho mai più incontrato e su cui però ho ricamato molto, tanto che ha finito per appartenere comunque al mio mondo fantastico, soprannaturale. Non è una degli Accademici, non si capisce se sia loro antagonista, se sia in realtà ancora più potente degli Accademici stessi. È come se fosse il mio riflesso al femminile, come se fosse la letteratura o il mio destino di scrittore. Come se mi dicesse l’eros non era solo quello, quell’immaginazione così bassa e spicciola, ma è tutto ciò che ti ha euforizzato, esaltato, commosso nella vita e anche la letteratura, lo studio, tant’è vero che lei stessa si rivela una persona colta, raffinata, alta, in una casa concorrente alla nostra che in famiglia abbiamo sempre chiamato la casa della torretta per via di una torretta un po’ neogotica con le finestre colorate, dove non c’era mai nessuno. M’è piaciuto immaginare che in questa casa misteriosa potesse trovarsi questa donna.
Una cosa che non viene fuori. È riconoscente alla sua famiglia? Si ritiene un privilegiato?
Privilegiato per l’ambiente artistico, privilegiato per la genetica – entrambi i miei genitori avevano un’intelligenza sopra la norma – e poi però con un prezzo che ho pagato fino in fondo. Un privilegio non gratuito.
Nel libro gli Accademici parlano della sua autobiografia come del romanzo con cui si congeda: è la verità?
M’è piaciuto scriverlo così, e scrivendolo ci ho creduto. M’è venuto spontaneo, mi piaceva rappresentarmi come vessato da questi Accademici, abusato, messo davanti all’ultimo cimento.
2. Ciò che hai amato anche un solo mattino, tienitelo stretto fino alla morte. Il mondo delle ansie ingabbiate da Michele Mari.
Affascinano sempre, di questa sua casa milanese, la libreria e i suoi mitici oggetti. C’è anche qualcosa che non si vede? Un vano segreto costruito apposta dietro uno scaffale come accade nel suo libro Di bestia in bestia?
No. Ci sono però, in quella vetrina separata dagli altri scaffali, diversi tesori librari. Qualcuno ereditato da mio nonno, il papà di mia mamma, ma la maggior parte sono colpi che ho fatto sui mercatini alla milanese fiera di Sinigaglia, dove andavo tutti i sabati mattina in modo sistematico (oggi non succede più, la fiera è diventata molto più commerciale). Negli anni Settanta e Ottanta invece c’erano ancora dei grossisti che tiravano giù dai camion intere cassette di libri antichi, tra i quali ho trovato delle cose rarissime. Per esempio, ho preso un Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria in prima edizione 1764, rarissima anche nelle biblioteche d’Europa; la prima edizione dei Canti orfici di Dino Campana, un opuscolo di versi di Gabriele D’Annunzio con la dedica autografa di D’Annunzio stesso, testi neoclassici di Giambattista Bodoni, alcune cinquecentine e questi tesori sono tutti lì un po’ appartati.
Attraverso le ultime interviste che ha rilasciato sembra delinearsi sempre più la figura di un uomo che ha affidato la propria anima agli oggetti. Cosa significa davvero?
Ovviamente è in prima istanza un modo di dire però è un modo di dire che corrisponde molto al mio sentimento; so benissimo che in termini fisici non c’è la possibilità di trasferire parti dell’anima in essi, però affettivamente questi sono stati talmente caricati da non essere più neutri ma oggetti radioattivi, magnetici, che sprigionano energia. Quella che ci ho messo io da piccolo, probabilmente.
Questo caricare gli oggetti di una grande importanza le è stato inculcato?
No. Magari mio padre mi ha trasmesso direttamente con precetti e obblighi, e indirettamente con l’esempio – perché lui era così – il rigore maniacale, l’ordine maniacale, tenere tutto a posto nei cassetti. Le bollette le tengo tutte classificate: per casa, per tipologia, gas, luce, telefono, acquedotto; ordinate progressivamente, anche la posta elettronica, continuamente la svuoto, la cestino, la divido per cartelle, per argomenti.
Non si stanca mai?
È un approccio che ho avuto fin da bambino, avere tutto sotto controllo come modo per tacitare l’ansia, impegnarsi a nominare le cose, numerarle, catalogarle, in modo che poi possano essere ripetute come una specie di litania.
O forse è una forma di esorcismo, di svuotamento semantico: ridurre le sostanze al loro nome e al loro suono, o è una pratica che rassicura e consola perché trasmette l’idea che siano docili, siano ubbidienti, si possano spostare, allineare come matite, come soldatini, come cartoncini.
L’ansia è dentro, è come una febbre e ha a che fare col respiro, e nel caso mio impormi di imitare mio padre nel dover sempre organizzare, riordinare tutto è un modo anche per costruire una specie di gabbia, con le sue regole, intorno all’ansia, come se l’ansia fosse una belva feroce da chiudere in una gabbia con le maglie sempre più fini.
Serve ad allontanare la morte?
Anche, sì, sicuramente al fondo c’è questo. Al fondo di tutte le paure c’è quella e infatti io sono uno che alla morte tende a non pensare, salvo in qualche momento di vertigine, di trasalimento, così come tendo a non pensare alle cose gravi della vita, alle malattie, alla vecchiaia, ai lutti e per questo m’inganno con tutta una serie di comportamenti nevrotici compulsivi che hanno a che fare con le quisquilie della vita. Io posso angosciarmi perché ci sono dei vicini che parlano ad alta voce finché questo diventa “il” problema, chiaramente un atto sostitutivo per non pensare ad altri problemi. Se uno ha delle ansie di qualsiasi tipo, sulla vita, sulla morte, ansie da prestazione, insicurezze, lutti, ferite, ostinandosi invece a ordinare le piccole cose che non tornano, prendersela perché due piastrelle non sono perfettamente allineate o un quadro è un po’ storto è un modo per esorcizzare le ansie vere.
Lei è credente?
No, non lo sono. Ho sempre pensato alla religione con un atteggiamento di totale scetticismo.
Però ama le Sacre Scritture.
Sì, le amo come testi letterari, esattamente come entro in una chiesa solo per motivi artistici, solo per vederne l’architettura, le pitture. Il mio modo di percepire il sacro è sempre estetico.
Non c’è una quintessenza in noi che è rivolta all’infinito?
Semmai entrando in una chiesa – aldilà della bellezza formale – percepisco, soprattutto se la chiesa è vuota e non c’è la messa, una discontinuità con il mondo esterno, col mondo degli affari, col mondo della vita che va avanti, degli interessi, delle lotte, della pubblicità, e vedere che lì resta tutto uguale, buio, fresco, mentre fuori c’è casino, ci sono le auto, mi dà senso di pace ma è più come se facessi il turista e mi trovassi in un bellissimo albergo su un’isola deserta. Se fossi vissuto qualche secolo fa e avessi dovuto aver a che fare col mondo della Chiesa avrei fatto il monaco benedettino che sta chiuso tutto il giorno in uno stanzino a leggere e a studiare e non certo il francescano che va per il mondo a dannarsi per gli altri. Da questo punto di vista non ho alcun afflato religioso.
3. La vera storia di LadyHawke, Breaking Bad, la mucca ruffiana e l’editoria canaglia. Michele Mari contro i mostri del mondo reale.
Si sorprende sempre del successo del suo libro di poesie… non le reputa valide?
Sì, e non so. Dei miei libri è sicuramente quello che sento meno importante. Non posso dire meno mio perché comunque è mio però sicuramente è il libro che mi rappresenta meno, anche perché io fondamentalmente sono un prosatore, e lo dimostra il fatto stesso che non ci sia stato un seguito a quel libro o un altro caso analogo.
È un unicum, legato a una vicenda molto particolare e paradossalmente – perché di solito si ha della poesia un’idea più mediata – è il mio libro più immediato e diretto, più trasparente, tanto è vero che queste poesie sono davvero state inviate come missive, a volte con una piccola cornice di accompagnamento a volte secche, così.
Erano più un divertimento?
Nascevano da una necessità. Da un amore impossibile, prima solitario, solipsistico, poi reciproco ma sempre impossibile – non più per il non detto ma perché nel frattempo lei aveva un’altra vita, una famiglia.
Questo amore faceva fatica a trovare uno spazio di dicibilità, di vivibilità anche solo a livello mentale perché nella vita cozzava coi tabù e anche essendo un rapporto platonico diventava non sostenibile, sconveniente, un rapporto che creava lacerazioni, sensi di colpa. L’unico modo per poter essere detto, articolato e indugiato nel tempo era quello di essere trasferito in una dimensione più legata al sogno, alla favola, al mito: appunto la dimensione della letteratura più che della vita.
È andata avanti per diversi mesi in modo molto intenso, drammatico, palpitante, grazie a questa opera di trasferimento nel regno della letteratura, per cui c’era la letteratura ma era una letteratura che obbediva a un impulso di vita. Non potevo andare a trovarla perché era a casa con suo marito, non volevamo neanche telefonarci per avere conversazioni di circostanza, le mandavo allora una poesia e su quella poesia lei ricamava, piangeva, ci pensava di notte e poi mi rispondeva dicendomi che cosa quella poesia aveva suscitato in lei. Era un modo per continuare a parlarsi, ma su un altro piano.
Non tradisce questo la sua idea di letteratura come un mondo parallelo che risponde a schemi e linguaggi diversi rispetto a quello ordinario? Mi sembra invece che questo sia la vita vera vissuta in quel mondo parallelo.
Sì, non è la letteratura che racconta la vita ma è la vita che per raccontarsi e per andare avanti ha bisogno di passare per la letteratura.
Non è che lo sente meno suo perché non le piacciono più quelle poesie?
Faccio fatica a valutarle dal punto di vista tecnico. C’è da dire una cosa, che queste poesie sono state talmente citate, fatte proprie da lettori sconosciuti, soprattutto lettrici, che le citano, le mettono nelle loro pagine e allora è come se questo libro lo sentissi sempre meno mio proprio perché è diventato del pubblico, è diventato di tutti quelli che a torto o a ragione si sono riconosciuti e soprattutto se lo regalano. Alle mie presentazioni spesso vengono dei ragazzi che ne hanno due copie, una per sé e una per un amico. Con l’ultima ristampa siamo a arrivati a 24.000, non tutte vendute ma comunque si tratta di cifre che non ho raggiunto con nessuno dei miei altri libri.
La poesia avrà un ruolo nel futuro?
La poesia è più breve, più centellinabile, più veloce, perché una poesia anche impegnativa può essere di una pagina o di mezza pagina. Può essere citata, inviata con un messaggio. Un romanzo implica tempo, implica entrare dentro il passo, lo spirito.
Il poeta della sua vita?
È lui (indica un ritratto): è Ugo Foscolo. Per i suoi sonetti, per i sepolcri, per la sua vita, la sua leggenda, ne sono sempre stato innamorato.
Dante per me è il più grande scrittore mai esistito, e poi un poeta “moderno” che mi piace molto è Gozzano. Per la sua malinconia, la sua ironia, il suo senso delle cose un po’ morboso, feticistico. Mi piace molto Torquato Tasso, in genere la poesia neoclassica, mi piacciono Montale, Saba, Penna; non condivido la passione milanese di Raboni, Sereni, Giudici, che hanno Milano nel cuore e nella mente, a me solo la parola Milano mette disagio.
In generale la modernità pare metterla a disagio. Frequenta i social network?
Il mio cellulare non è uno smartphone, il mio pc è del 2000. Esistono, mi hanno spiegato, delle fasce, indipendenti dall’età e dal sesso, di classificazione degli individui in base alla loro accoglienza, accettazione, apprezzamento del nuovo. Il nuovo in tutti i sensi, che può essere un locale rinnovato, un modello di auto, una nuova tecnologia. Mi hanno diagnosticato al grado più conservativo. È sempre stato così, qualsiasi cosa che si rinnova l’ho sempre visto come un lutto. In Euridice aveva un cane, il racconto che dà il titolo alla raccolta gronda di questo sentimento, perché io guardo il paese, guardo le case dei vicini e tutto quello che non è come l’avevo visto la prima volta, antico e originario, tutto ciò che è stato rinnovato, un cancelletto, una lampadina, un campanello, diventa un oltraggio, un insulto. Anche negli elettrodomestici, con le automobili, cerco di mantenere sempre quello che ho come dovesse durare in eterno, discuto sempre coi tecnici e pago di più per ricombinare insieme vecchi elementi piuttosto che sostituirli col nuovo. Anche al computer mi sono convertito tardissimo, quando tutti i miei coetanei già lo usavano, sono arrivato vent’anni dopo, perché fino al 2002 ho scritto tutto a mano e a macchina, e ho cominciato a usare il computer solo per necessità, perché gli editori non accettavano più dattiloscritti.
Non sta solo rimandando l’inevitabile?
È un po’ la logica del resistente, di quello che rimane arroccato e resiste.
Le mie esigenze comunicative sono o di tipo artistico, e quindi scrivo i miei libri, o di tipo pratico, tecnico e allora uso la mail o il telefono, e comunque il meno possibile. Mi sembra che facebook e twitter siano perlopiù spazi di cazzeggio, che è una cosa sulla quale mio padre mi ha reso di un’intransigenza puritana, da questo non mi sono mai liberato, so benissimo che è anche un ricatto, che si può essere intelligenti e anche cazzeggiare, magari non sempre, e però è una cosa che mio padre mi ha istillato una volta per tutte nella testa.
Sono feticista e conservatore anche nella grafia, a me dà fastidio che anche nelle mail la gente non metta più le maiuscole, la punteggiatura giusta, che ci siano le abbreviazioni, gli emoticon. Immagino che questo avvenga all’ennesima potenza sui social network, preferisco astenermi.
Però se non sei Michele Mari probabilmente la tua esigenza comunicativa è il selfie, cioè così come lei scrive questo libro che gronda se stesso, una persona con meno strutture intellettuali…
Può essere.
Frequenta le serie tv?
Mentre la maggioranza dei miei libri è qua e nella casa di campagna (a Roma ne ho pochi) a Roma io e mio figlio abbiamo tutti i nostri dvd, che sono circa 3500. Non scarichiamo nulla, compriamo nei negozi o nei mercatini. Li abbiamo tutti ordinati cronologicamente, filologicamente, sia io che mio figlio siamo spettatori bulimici, passiamo le giornate a guardare film.
Un po’ di tempo fa mio figlio si è convertito alle serie, che mi hanno invece sempre insospettito, e ha cercato di contagiarmi e io ho sempre detto di no finché una volta è riuscito nell’intento ed è riuscito a farmi seguire un’intera serie per 62 episodi che però resta l’unica che io abbia visto: Breaking Bad. Mi è piaciuta molto, devo dire, però continuo a preferire i film.
Come restare fedeli a se stessi come scrittori?
Se oggi vuoi scrivere restando fedele a te stesso, senza voler incontrare i gusti del pubblico, è meglio che tu abbia un altro lavoro. Fin da esordiente mi son sempre permesso di dire o così o niente, piuttosto rinuncio, ho sempre puntato i piedi, ho sempre difeso a oltranza le mie scelte, non ho mai accettato compromessi, neanche sui titoli. L’unico ambito nel quale qualche volta ho dovuto mandar giù qualche compromesso è stato sulle copertine, anche se molte le ho scelte io, però qualche volta ho accettato delle copertine propostemi dall’editore.
Per esempio?
Mi piace poco quella di Rosso Floyd, con la mucca. Troppo facile, troppo ruffiana.
Un suo pezzo forte è sempre quando dice che non le piacciono i contemporanei…
Si piegano a un editing e a tutto l’imprinting della casa editrice. Io vedo tanti scrittori che tranquillamente dialogano con l’editore in corso d’opera, fanno leggere un capitolo e poi l’editore dice “sì, io lavorerei in questa direzione piuttosto che in quest’altra, svilupperei più questo aspetto”, ecco: a me questa sembra un po’ la dinamica di un laureando che porta i pezzi di tesi tutte le settimane al suo professore.
A me fa orrore una dinamica di questo tipo e quando ne parlo mi sento dire spesso “ah ma tu hai una concezione autoriale”. Come se fosse un male. Io dico sì, sono un autore, che concezione devo avere? Ovviamente intendono autoriale nel senso che la letteratura è per me una religione di cui io sia il sommo sacerdote.
L’editoria di oggi è un postaccio?
È un posto molto omologante, insegue sempre l’ultimo successo, l’ultimo caso, un libro politicamente corretto, buoni sentimenti, il libro ammiccante, ricattatorio.
Il rischio di tagliare fuori dall’industria editoriale autori validi è più alto oggi che in passato?
Sì, c’è un tale frastornamento, una tale quantità di etichette, case editrici, collane, anziché puntare sul catalogo si punta sulla quantità sperando di imbroccare il caso che fa il botto, che vende 500.000 copie e con quello si è tranquilli per un paio d’anni.
C’è ancora chi fa scelte coraggiose?
Il problema è salvare capra e cavoli. Come in tutti i campi ci sono persone coscienziose e coraggiose e altre meno, però anche quelle più coraggiose devono fare i conti con la situazione attuale. Io per primo – anche se mi dà fastidio vedere pubblicata tanta robaccia – non dovrei permettermi di fare troppo il difficile, perché la mia stessa pubblicazione è resa possibile da quella di autori più commerciali di me.
Peraltro lei stesso non ha mai accettato una ghettizzazione della cultura alta e bassa, mettendo sempre sullo stesso piano fumetti, gialli, horror, fantascienza. La letteratura dei mostri.
Sì. I mostri sono poeticamente soli, ho sempre provato molto affetto per la creatura di Frankenstein, il freak, il diverso, il perseguitato, King Kong con gli aeroplanini che lo mitragliano: anche nei film ho sempre fatto il tifo per i mostri. Evidentemente anche i mostri sono una forma di esorcismo perché rendono le nostre paure decorative, romanzesche, plastiche come figurine, come soldatini, mentre le paure, le angosce, i mali di vivere sono informi, sono gassosi, sono sfuggenti, inafferrabili, letteralmente indicibili invece il mostro è dicibile, anzi di più: è disegnabile.
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