Letteratura

Tommaso Giartosio -Autobiogrammatica – Finalisti Strega 2024

30 Maggio 2024

Tommaso Giartosio – Autobiogrammatica– Minimumfax 2024   –

Sono uscito sconfortato e disorientato dalla lotta corpo a corpo con questo testo di Giartosio. Sinceramente l’incipit mi aveva conquistato e infuso una certa euforia, di trovarmi cioè davanti a un testo di pregio. Nell’avantesto c’è  un accenno al “lessico familiare”, con un richiamo al libro della Ginzburg che ricordo amai molto, e poi il  primo capitolo narra di una coppia consolidata di omosessuali (l’io narrante e Carlo)  che si gode una vacanza in Sicilia triquetra insula che io da siciliano diasporato chiamo il Triangolo Maledetto. E quale finezza in una osservazione come questa:

Non è vero che l’ignoranza è confortevole: quando la tocchi, fa paura. Soprattutto l’ignoranza di chi ha letto Verga e Sciascia ma li ha letti come Tolkien e Kipling

che è una frase profonda e suggestiva se sottende una intenzionalità screditante dell’esotismo che i lettori foresti  vedono tuttora nel nostro Sud come  le Indias de por acà, locuzione dei gesuiti colti di una volta,  non quelli di oggi che si fingono francescani e parlano a braccio come parroci di campagna. O se volete quella falsa simpatia da “disagio della civiltà ” o da “anticapitalismo romantico” di chi vede nel  nostro Sud, non arretratezza e sottosviluppo, ma una resistenza naturale ed encomiabile   (da “pensiero meridiano”) alla modernità e alla omologazione, il fortunato anatema pasoliniano contro l’omologazione culturale che tanto cattura  ancora oggi gli spiriti renitenti alla leva dell’odiato neoliberismo.

Ho proseguito estasiato nel leggere  una frase  graffiante sul “Sud [che] restava uno spazio d’inesperienza, un vuoto farcito di folklore” e ne  ho avvertito tutta la verità, come anche l’annotazione realistica e vera circa “buste di plastica e cocce d’anguria lasciate dai gitanti della domenica: perché, mi chiedevo, questa mancanza di senso civico?”.  Bene, mi sono detto, il testo si avvia sotto i migliori auspici, quelli caustici e realistici. Datemi  poi qualcuno che parli male della Sicilia e io gli offro il mio bicerin (Torino, insieme a Taranto e Roma è uno dei luoghi in cui si svolge l’azione) di odioamore aggiuntivo, anzi  gli rivelo altri mali, altre storture, come quel contadino siciliano di Troina nella celebre foto di Robert Capa che indica con un bastone steso sull’orizzonte allo yankee militare accovacciato la retta via.

Ma quale stupore e malumore mi hanno colto quando ho avvertito la reale intenzione del libro che avevo tra le mani. Considero un lettore sagace colui che balza su un testo e da pochi accenni gli strappa il cuore, il suo nucleo tematico profondo e i corollari che gli girano attorno. La definizione che egli ne dà  è

Quanto a me, che potevo fare? Qualcosa di più: immaginare una vera e propria autobiogrammatica che ambisse a disegnare un atlante del linguaggio di un singolo individuo: cioè del suo modo di sentire e vivere la lingua.

Invero lo scopo finale di questo libro è duplice in apparenza: un’autobiografia incardinata stilisticamente e tematicamente in quella che più che “un atlante del linguaggio” è  l’avventura dei nomi o più genericamente l’indagine sui nomi. Ma è questo secondo aspetto, sotto il paravento del nume tutelare di Lessico famigliare della Ginzburg che prende il sopravvento in maniera ossessiva e testualmente, semanticamente, letterariamente sterile e con qualche tratto di sventatezza da princisbecco o da précieux ridicule, come meglio dirò in seguito. Mi sono accorto di ciò quando la voce narrante si è avventata sul primo osso da spolpare: il nome di Salvo Lima, in una divagazione sui nomi che da questo momento in poi oscura la narrazione e ti viene in prima linea. Orbene, la divagazione sul nome Salvo è sciapa e ridondante, grafico istogramma a canne d’organo incorporato compreso sulla ricorrenza dei “Salvo” a livello nazionale, segno che il gioco si è disancorato dal testo narrativo, è diventato un testo a sé stante, un ecfrasi che vorrebbe essere brillante, ma che ha molte micce bagnate. Da Salvo si passa a Lima, raspa, sega… e dunque l’abisso delle seghe, dell’onanismo. Ma poi riprende la filastrocca delle lime.

Si allude in più punti del “romanzo” a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, dicevo,  ma in quel delizioso romanzo ancora naturalistico non sottoposto alla sgocciolatura di scrittura alla Pollock che vediamo qui (vi sono anche  molti disegni allegati), era un idioletto domestico, che  molti abbiamo in famiglia, un codice linguistico tutto nostro, affettuoso e parlato solo da noi. Qui invece è qualcosa di più complesso ed elaborato  con parecchie alzate di ingegno e derive parolibere.

Ciò in quanto la voce narrante in effetti crede alla forza suggestiva dei nomi, a una loro forza interna fondativa quasi ontologica delle cose. Così mi sembra quando leggo: <<Ma forse i nomi servono proprio a svelare l’anima nascosta delle cose, la morbidezza dei coltelli, l’implacabilità dei cucchiai>>, oppure <<già il nome ti spezza la frase e ne schizza via i pezzi in direzioni incontrollabili>> o anche <si può amare un nome? Io dico di sì, perché si può amare un quadro, una casa, un’ora del giorno. Ma chiamerò a parlare un esempio…>>, ebbene ne seguiranno in verità per oltre 400 pagine in epicicli ed epicicli di esempi e richiami tra jokes, calembour, rebus, nonsense, nomen omen, witz, puns, paralogismi, ecc che soffocano quel moncone di narrazione che abbiamo in esordio  e quella a seguire (quel Carlo p.e. si inabissa per scomparire  definitivamente a metà  “narrazione” e niente più se ne sa). Insomma se per Mallarmè le monde existe pour aboutir à un livre, qui è à un mot, una parola.

Orbene la voce narrante sembra credere alla forza se non fondativa e ontologica, noumenica, dei nomi, alle forti suggestioni letterarie e filosofiche che girano attorno a essi. Ma se oltre ai nomi classici e attesi di Carroll, Caillois, Epimenide, e in ultimo Pound (Rimbaud è citato  a tre quarti del testo ma l’autore dice  che in quel momento non conosceva “Vocali” e le sue “naissances latentes”) ecco che manca il testo fondativo della tematica che sta a cuore alla voce narrante: e cioè il Cratilo di Platone che affronta proprio il tema del linguaggio e dei nomi. L’autore  sembra prendere parte per Cratilo che credeva esistesse una identità tra nome e cosa nominata. Il nome sarebbe vero sempre, perché racchiude in sé la stessa natura (physis) che intride la cosa nominata. La voce narrante  non crede alla posizione del sofista Ermogene che contrasta Cratilo (i sofisti furono gli illuministi greci), il quale sosteneva invece la natura convenzionale (“per nomos” o convenzione e non “per physis” per adesione intima alla cosa dunque) dei nomi. E perciò potremmo nominare il cavallo scoiattolo o cicala ci rimanderebbe sempre, quel nome, a quella cosa che è il “cavallo”. E del resto Shakespeare era su questa scia quando affermava  in Romeo e Giulietta <<Romeo se tu non ti chiamassi Romeo sempre Romeo saresti>> (se la rosa non si chiamasse rosa sempre profumo farebbe ecc cito a mente). Siamo insomma nella querelle di lunga tradizione filosofica che è racchiusa in un primo apoftegma: nomina sunt consequentia rerum o come opta al contrario Giartosio res sunt consequentia nominum?

È certo che in letteratura ma solo a scopo di gioco e ovviamente con la mano più leggera di quella di Giartosio s’è  giocato sui nomi e sulle loro naissances latentes. Flaubert scegliendo i nomi Bovary e Bouvard volle suggerire  una nascita latente. Sono nomi derivati da bœuf l’animale che rumina silenziosamente con aria da bestia mite che in francese di dice bête, ma bête vuol dire anche idiota e bêtise, idiozia, perché il bove ruminante ha un che di stupido nello sguardo. E visto che qui nelle prime battute quantomeno, siamo in ambiente siciliano, anche in Sicilia idiota si dice bbestia, quantu bbestia, quanto sei idiota. È uno dei tanti francesismi siciliani come muccaturi (fazzoletto da naso) da mouchoir o fumèri (letame) da fumier … Ecco già Flaubert aveva azionato uno dei meccanismi segreti suggeriti da questo libro è cioè  che <<Le parole, a volte, dettano le nostre azioni. Non ne siamo quasi mai consapevoli. Crediamo di aver scelto di volare in una certa direzione, ma in realtà siamo guidati dagli ultrasuoni che noi stessi emettiamo>>. Ma tutto ciò avrebbe un senso se ci si limitasse a un gioco leggero beninteso <<un tic da letterato. Un godimento trash>>, dice la voce narrante ad un certo punto. Ecco, ci sta si suol dire. E potrei aggiungere a  proposito dell’avventura dei nomi,  lo struggente e ineguagliabile passo della Coscienza di Zeno: <<Lei si chiamava Ada e io Zeno e mi sembrava di prendere moglie lontano dal paesi miei>>. A dire il vero c’è anche qui un bon mot leggero e grazioso alla “Zeno” allorché si legge: <<Alvar Aalto aveva certo le qualità di un grande architetto, ma le sue iniziali non gli avranno fornito una spinta in più a primeggiare?>>.

Ma alla fine qui accade che l’ecfrasi diventa divagazione proliferante, associazione di immagini, lallazione goduriosa, capriccio a sé stante non sempre breve e non sempre lieve. Il discorso sui nomi, sulla loro grafia, assonanze, consonanze, dissonanze non è piú il pre-testo, ma diventa  il focus del testo stesso.
Quando si arriva a proposizioni tipo: <<è vero che senza l’apostrofo avrei fatto l’amore diversamente?>> o <<sarei stato il pesce che racconta l’acqua perché la congiunzione comunque mi sembra struggente (molto più di tuttavia, per dire)?>> o altre amenità chic, noi lettori  veniamo sommersi da sentimenti combattuti e cominciamo ad alternare assensi e distrazione, applausi e sbadigli, adesione e noia. C’è il pre-testo e il para-testo, manca il contesto (soprattutto narrativo, sbrigato in poche pagine dedicate a mammaepapà (così nel testo) e noi ci sentiamo Alice nel paese delle meraviglie. Ma ecco che dopo un tentativo di narrativa tradizionale il padre dà  della “stella” alla moglie e ai figli e subito riparte la grande giostra dei nomi.

<<La parola stella fa pensare alla conclusione delle tre cantiche della Commedia e alla parola tedesca Stern, stella, che a sua volta gli ricorda l’aggettivo inglese stern, severo, austero, inflessibile, e il sostantivo inglese stern, poppa della nave, e (per metafora) sedere. Tra Stern, stern e stern non c’è nessuna radice comune>>.

Insomma si aprono slarghi di cerebralismo, di scrittura automatica, di mere sbobinature mentali, di autoerotismo lalico in cui tutto  è  previsto tranne il lettore. Detto in parole corrive lui se la canta e lui se la suona. Si sta autopsicoanalizzando forse? Certo è che il saggio prende il posto della narrazione, e non è un saggio né leggero né accattivante. Vedi l’ultima parte dedicata totalmente ai Canti pisani con un minisaggio sugli ideogrammi cinesi e quant’altro di Ezra Pound.

Certo il libro è originale, ma dell’originalità snob, non so, di chi a Capri va con un pappagallo sulla spalla a ripetergli parole sfiziose e strambe. Incorrendo anche in qualche infortunio: qui la battigia è infatti detta bagnasciuga,  come nel celebre discorso di Mussolini. Più avanti il momento clou di una narrazione è detto “lo” Spannung, a dispetto del femminile nell’originale “Die Spannung“. Non mancano momenti di puro  terrorismo in prosa come questo, tutto un unico lemma: lochnerwitzpachergrünewaldaltdorferelshei/merfriedrichklimtkleekirchnerkokoschkaernst

Concludendo: oltre 400 pagine di doppia procedura,  narrativa autobiografica (che farebbe impazzire comunque Philippe Lejeune e il suo “pacte autobiographique”) e divagazioni extra, super-colte e raffinate sulle parole, col risultato dei due consoli del Coriolano di Shakespeare in cui periscono entrambi. Ecco rintracciati i versi che vagolavano nella mia mente a chiusura della mia lettura. Coriolano: <<Per Giove in persona! questo rende i consoli spregevoli: e la mia anima soffre nel vedere, quando sono contrapposte due autorità di cui nessuna è superiore, come rapidamente la confusione penetri nella breccia che vi è tra le due e distrugga l’una per mezzo dell’altra>>. (Atto III  sc . Ia.)

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Finalisti Premio Strega 2024

– Tommaso Giartosio – Autobiogrammatica
urly.it/3a8yy

– Antonella Lattanzi – Cose che non si raccontano urly.it/3_y7d

– Antonella Di Pietrantonio – L’età fragile urly.it/3abqq

–  Dario Voltolini – Invernale//urly.it/3agyq

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