Letteratura
Tango del vedovo (storia di una poesia di Neruda)
1926. Già poeta di una certa fama nel suo paese, Pablo Neruda, poco più che ventenne, desidera sopra ogni altra cosa esplorare il mondo. Diventato amico di un funzionario del Ministero degli esteri cileno, dopo un lungo periodo di corteggiamento, riesce a convincerlo a farsi presentare al Ministro. Quest’ultimo chiede al funzionario quali sono le sedi dei servizi consolari cileni in quel momento scoperte. L’altro cita un lungo elenco di sedi, Neruda afferra al volo solo il primo nome: Rangoon.
Quando il ministro gli chiede: “E lei dove vorrebbe andare?”, don Pablo risponde con l’unico nome che ha capito. In capo a qualche settimana (si viaggiava per mare allora) si ritrova in Birmania.
L’avventura così si rivela presto molto meno eccitante del previsto: “Quando arrivava una nave che trasportava paraffina solida e grandi casse di tè per il Cile, dovevo freneticamente timbrare e firmare documenti, seguivano poi mesi di inazione, nei quali non mi restava che la contemplazione solitaria di mercati e di templi”.
Ma un bel giorno il giovane poeta s’innamora di una giovane indigena, Josie Bliss. “Sentivo tenerezza per i suoi piedi nudi, per i fiori bianchi che brillavano tra i suoi capelli scuri”.
Ma la donna lo ama con “parossismo selvaggio”: è gelosa delle lettere che arrivano al poeta, gli nasconde i telegrammi senza aprirli, guarda con rancore perfino l’aria che lui respira. Qualche volta il poeta, svegliandosi di soprassalto durante la notte la vede in piedi, oltre la zanzariera, con in mano un lungo coltello, pronta ad ucciderlo. “Quando morirari, i miei terrori finiranno” gli dice la donna.
Così si chiude la storia:
“Avrebbe finito per uccidermi. Per fortuna ricevetti un messaggio ufficiale che mi comunicava il mio trasferimento a Ceylon. preparai il viaggio in segreto e un giorno, abbandonando i miei vestiti e i miei libri, uscii di casa come al solito e salii sulla nave che mi avrebbe portato lontano”.
Sulla nave che attraversa il golfo del Bengala, Neruda scrive di getto il Tango del Vedovo, dedicato alla donna che ha perso “perchè nel suo sangue crepitava senza posa il vulcano dell’ira”.
Oh Maligna, avrai già trovato la lettera, avrai già pianto con furia
e avrai insultato la memoria di mia madre
chiamandola cagna putrefatta e madre di cani,
avrai già bevuto da sola, in solitudine, il tè della sera
guardando le mie vecchie scarpe vuote per sempre
e non potrai ricordare i miei malanni, il mio dormire, il mio mangiare
senza maledirmi ad alta voce come se io fossi ancora lì
a lagnarmi dei tropici dei coolies corringhis*,
delle febbri velenose che mi hanno rifinito
e dei ripugnanti inglesi che odio ancora.
Maligna, in verità, com’è grande la notte, com’è sola la terra!
Sono tornato di nuovo nelle camere solitarie,
mangio nei ristoranti pietanze raffreddate, e di nuovo
butto per terra i pantaloni e le camicie,
non ho attaccapanni nella stanza né ritratti alle pareti.
Quant’ombra, di quella che albergo in cuore, darei per riaverti
e quanto minacciosi mi sembrano i nomi dei mesi
e che suono di lugubre tamburo ha la parola inverno!
Sotterrato vicino al cocco troverai più tardi
il coltello che ho nascosto per timore che tu mi uccidessi,
e ora all’improvviso vorrei fiutare la sua lama da cucina
abituata al peso della tua mano e al fulgore del tuo piede:
sotto l’umidità della terra, tra le sorde radici,
delle umane parole il poveretto non saprà che il tuo nome,
ma la grossa terra non capisce il tuo nome
fatto d’impenetrabili sostanze divine.
Come mi angoscia pensare alla sfolgorio delle tue gambe
distese come ferme e dure acque solari,
alla rondine che dorme e vola nei tuoi occhi,
al cane di furia che alberghi nel cuore,
così vedo anche quanta morte c’è tra noi due da quest’ora
e respiro nell’aria cenere e distruzione,
il lungo, solitario spazio che mi circonda per sempre.
Darei questo vento del mare smisurato per il tuo brusco respiro,
che ho udito in lunghe notti senza oblio
congiungersi all’aria come la sferza al cavallo.
E per udirti orinare, nel buio, dal fondo della casa,
come versassi un miele sottile, tremulo, argentino, ostinato,
quante volte darei questo coro d’ombre che è mio,
e il rumore d’inutili spade che mi sferraglia nel petto
e la solitaria colomba di sangue che sta sulla mia fronte
a invocare cose scomparse, esseri scomparsi,
sostanze stranamente inseparabili e perdute.
Devi fare login per commentare
Accedi