Letteratura

Sylvia di Leonard Michaels: storia di un amour fou

2 Ottobre 2016

“Mi cullavo nell’idea che ogni uomo e ogni donna che vivevano insieme fossero come Sylvia e me. Ogni coppia, ogni matrimonio, erano malati”.

Amare una persona, volerla, cercarla, sognarla e poi detestarla perché ti perseguita, perché rende il tuo quotidiano un assedio, un vero inferno. Abbracciare, baciare, possedere un corpo e desiderare che svanisca, liberandoti da una forma di prigionia. Scappare e tornare, gioire e tremare di paura, esitare e poi agire, urlare e quindi tacere. Contrasti su contrasti, follia su follia e zero equilibrio emotivo. Di questo amour fou racconta Sylvia, memoir dello scrittore americano Leonard Michaels, pubblicato da Adeplhi (pag.129, traduzione di Vincenzo Vergiani), nel quale l’autore rievoca la relazione turbolenta con Sylvia Bloch, la sua prima moglie. Sono gli anni Sessanta e il Village, in America, pullula di artisti, poeti effettivi e presunti, mentecatti, promesse della musica e della letteratura. Leonard conosce Sylvia a casa di un’amica in un periodo che non sa cosa fare di lui e della sua vita. Leonard e Sylvia – bassina, elegante, intelligente – si scrutano, si piacciono, finiscono insieme. La felicità dei primi tempi lascia presto il posto a un’elettricità violenta, a un’insofferenza pericolosa. (“Litigando ogni giorno avevamo sviluppato una feroce intimità. Come un bambino in preda a un eccesso di collera, lei restava impigliata nel suono delle proprie urla. Urlava perché stava urlando, urlando, urlando, come se costruisse una sua stanzetta di rabbia, con se stessa al centro. Era tutta sua. Comandava lei”). Si crea tra i due un meccanismo del genere: Leonard scrive, Sylvia mette il broncio e lo distoglie, Leonard vede un amico, Sylvia si ingelosisce e perde le staffe. Mentre Leonard sente il suo equilibrio scricchiolare, Sylvia studia, passeggia, scintilla. Ammirarla, guardarla da lontano equivale a compromettersi, a volerle stare accanto. Ma starle accanto equivale a rimetterci la testa.

Seguendo un reticolo emotivo e gli stralci di un diario dell’epoca dei fatti (Diario, gennaio 1961 – “Sono rimasto in attesa. Lei si è lasciata di nuovo cadere all’indietro, facendo smorfie d’odio, ghignando e contorcendosi come un’epilettica. Poi si è tirata su, mi ha dato uno schiaffo, e ha detto: non riesco a capire perché non mi adori“), Leonard Michaels racconta l’escalation di una forma di pazzia tra le quattro mura e il conseguente sgretolamento di un sentimento. L’apprensione, il disagio, lo smarrimento prevalgono velocemente sull’entusiasmo, la curiosità, la gioia. Neanche le correnti artistiche che infiammano il quartiere possono molto contro l’asfissia di una convivenza impossibile. Se è vero che nessuno si salva da solo, è anche vero che nessuno ti può salvare se sei il primo a volere affondare. Succede. Succede e fa male, molto male. Così quando Leonard decide di far calare il sipario sul suo personalissimo teatro degli orrori, Sylvia raddoppia la posta in gioco, senza alcuna connessione con quella che chiamiamo normalità. Alla fine del libro – che è anche la fine di un percorso esistenziale –  non ci sono eroi, vincitori, cose giuste da fare o da dire. Resta un’esperienza drammatica, allucinante. Restano un uomo e una donna che si sono amati e fatti del male in egual misura. Un libro indimenticabile. Da leggere.

 

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