Letteratura

Sulla vera identità di un artista. L’uomo è nulla, l’opera è tutto

5 Ottobre 2016

In questi giorni in cui si discute sulla vera identità di una scrittrice (vera per chi? Per sé, per gli altri? E poi: vera veramente? O vera nello spazio finto che è la letteratura, dove menzogna e verità premono con la stessa cogenza?) sarà il caso di andare a rivedere la questione presso lo scrittore, Gustave Flaubert, in cui il rapporto dell’io con la scrittura, con i lettori, con se stesso, con la verità, con il mondo,  costituisce argomento di assillo personale e di modulazioni infinite.

Lo scrittore che non ha mai detto “Madame Bovary sono io” ma che era effettivamente Madame Bovary, come soprattutto Charles Bovary (Charbovarì, ossia l’idiota della famiglia, secondo il titolo di una celebre e delirante biografia di Sartre su di lui), ma che si era rifratto anche nell’ebete mistico sant’Antonio (chiusosi in una Tebaide dello spirito come lui, Gustave), ma che era anche Léon, o Rodolphe, come Frédéric Moreau, come i due idioti sublimi Bouvard e Pécuchet, come tutti i personaggi usciti dalla sua penna, perché se lo scrittore deve essere come il Dio di Spinoza (il deus absconditus) è fatale che si rifletta in tutte le sue creature. Solo lo scrittore maschio  nel suo delirio della creazione può mettersi la gonna di una donna, provare l’ebbrezza della sessualità femminile e farne oggetto di potente creazione artistica. E questo vale per lui nei confronti di Emma Bovary, come per Tolstoj verso Anna Karenina.

Chiunque abbia letto un libro di narrativa potente e sconvolgente si è sempre chiesto in che rapporto di verità e finzione stanno l’autore e i suoi protagonisti di carta.

È proprio necessario saperlo? Sì e no.

Sì perché il dato biografico dell’artista, come altre risorse critiche, ci metterà in contatto diretto con i fantasmi della sua creazione. Risiede in questa necessità talora inderogabile per la ricostruzione della sua personalità artistica, la spiegazione di quella folle  biografia psico-critica di Sartre su Flaubert dove il filosofo metà fenomenologo e metà marxista dà  la caccia al suo biografato fin dentro l’utero materno.

No, perché l’opera di un artista ha evidenza di per se stessa. È un’ evidenza prismatica ovviamente, dalla quale intuiamo tuttavia la realtà, che non può essere che prismatica anch’essa, dell’io narrante. Rubando un’immagine allo stesso Flaubert che la usò nel descrivere un suo conoscente in una lettera, l’Io, qualsiasi Io,  è a “gorgiera di piccione” (gorge pigeon), dove il blu si stinge nel verde, nell’azzurro, nel rosso, nel bianco, ecc. Qualcun altro direbbe che l’Io è a  “ colore di cane che fugge”…

Non sappiamo pressoché nulla di Omero né di Shakespeare, ma le loro opere ci dicono tutto di loro, innanzi tutto che erano delle menti oceaniche, oceanic mind come dirà Coleridge (in “Biographia literaria”) di Shakespeare. Menti oceaniche, il che è dire tutto e nulla, certamente potenze spirituali infinite ed eterne che ancora ci parlano quando la sera poggiamo la nostra testa affaticata sull’origliere.

Ci dobbiamo solo augurare di averne di più di queste menti oceaniche che ci assistino nel decifrare il rebus dell’esistenza, che ci diano le dritte per conoscere e interpretare il mondo morale e storico in cui siamo immersi e che ci aiutino, se possibile,  anche con la  loro potente narcosi letteraria, a sopportare con forza e dignità  il dolore del vivere. Non abbiamo altro dio che il loro.

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Riporto di seguito alcuni brani tratti dalla “Corrispondenza” di Flaubert (edizione Conard, e poi Pléiade a cura di Jean Bruneau), dove il grande artista normanno si interroga sulla propria arte, il giornalismo, il rapporto tra opera e personalità di un artista, e getta alcune luci potenti sulla propria personalità.

GIORNALI/GIORNALISTI

–          Perché scrivere sui giornali quando si possono fare dei libri e non si muore di fame?

–          Mi parlate delle porcherie della stampa; io ne sono così disgustato che provo verso i giornali un disgusto fisico radicale. Vorrei proprio non leggere del tutto piuttosto che leggere questi abominevoli rettangoli di carta. Ma si fa di tutto per dare loro dell’importanza! Ecco il guaio. Fino a quando non si sarà demolito il rispetto di ciò che è stampato, non si sarà fatto nulla. Instillate nel pubblico il gusto delle grandi cose e lascerà le piccole, o piuttosto lascerà le piccole divorarsi tra loro.

–          Considero come una delle felicità della mia vita il fatto di non scrivere sui giornali. Mi costa alla tasca, ma la mia coscienza ne guadagna ed è ciò che più conta.

–          Ma quanto a firmare [degli articoli], no. È da vent’anni che conservo la mia verginità. Il pubblico l’avrà tutta d’un colpo, o niente […] Sono ben deciso per l’avvenire a non scrivere su alcun giornale foss’anche la “Revue de Deux Mondes”.

–          Quanto a trovarvi un lavoro regolare in un giornale, è impossibile, per la semplice ragione che non pubblicano. Se voi sapeste i mucchi di articoli stipati nei cartoni e che non leggono nemmeno! Tutto, ahimè, si fa come per gli stivali, su ordinazione! C’è solamente, nei giornali così detti seri, un tizio che fa a spanne e alla bell’e meglio la critica dei libri: primo per stroncare le opere invise al giornale o a qualcuno dei redattori; e secondo per promuoverle e sempre per la raccomandazione di qualcuno. Ecco la regola, il resto è l’eccezione.

–          Oh il giornalismo, che merda!

 

IMPERSONALITÀ

–          Il signor De Musset è maledettamente nel luogo comune. La sua vanità è di sangue borghese. Io non credo, come te, che ciò che egli ha sentito di più siano le opere d’arte. Ciò che ha sentito di più sono le proprie passioni. Musset è più poeta che artista, e adesso molto più uomo che poeta, e un pover’uomo. Musset non ha mai separato la poesia dalle sensazioni di cui essa si sostanzia. La musica, secondo lui, è stata fatta per le serenate, la pittura per i ritratti, e la poesia per le consolazioni del cuore. Quando si vuole metter così il sole le nelle proprie mutande si bruciano le mutande e si piscia sul sole. È ciò che gli è successo. “I nervi, il magnetismo, ecco la poesia”. No, essa ha una base più serena. Se fosse sufficiente avere dei nervi sensibili per essere un poeta, io vedrei meglio di Shakespeare e di Omero, il quale me lo immagino essere stato un uomo poco nervoso. Questa confusione è empia. Io ne posso dire qualcosa, io che ho ascoltato attraverso delle porte chiuse, parlare a voce bassa delle persone a trenta passi da me, io, di cui si può vedere attraverso la pelle del ventre fremere tutte le viscere, e che talvolta ho sentito nel tratto di un secondo un milione di pensieri, di immagini, di combinazioni di ogni sorta che scoppiano insieme nel mio cervello come tutti i razzi accesi di un fuoco d’artificio[…]

–          La Poesia non è una debilità dello spirito, e queste suscettibilità nervose lo sono. Questa facoltà di sentire oltre misura è una debolezza.[…] Stessa cosa nell’arte. Non è la passione a  fare i versi. E più voi sarete personale, più sarete debole. Io ho spesso peccato in questo, ed è perché mi sono messo sempre nelle cose che ho fatto. Al posto di Sant’Antonio [“La Tentazione di Sant’Antonio”], per esempio, sono io che ci sono. La tentazione era per me e non per il lettore. Meno si sente una cosa e più si è atti ad esprimerla come essa è (come essa è sempre, in sé stessa, nella sua generalità e liberata da tutte le contingenze effimere). Ma bisogna avere la facoltà di farsela sentire. Questa  facoltà non è altro che il genio. Vedere. Avere il modello davanti a sé, in posa.

–          È per questo che detesto la poesia parlata, la poesia in frasi. Per le cose che non hanno parole lo sguardo basta. Le esalazioni dell’anima, il lirismo, le descrizioni, tutto ciò lo voglio ridotto in stile. Altrimenti è una prostituzione, dell’arte e del sentimento stesso.

–          Ed è stato proprio questo pudore che mi ha impedito di fare la corte ad una donna. Dicendo delle frasi po-e-ti-che che mi venivano in quel mentre sulle labbra, avevo paura che lei dicesse “Che ciarlatano” e la paura di esserlo effettivamente mi bloccava. […]

–          Sono della stessa farina tutti quelli che vi parlano dei loro amori svaniti, della tomba della loro mamma, di papà, dei loro benedetti ricordi, che baciano dei medaglioni, piangono alla luna, delirano di tenerezza vedendo dei bambini, svengono al teatro, prendono un’aria pensosa davanti all’Oceano. Buffoni! Buffoni! e tripli saltimbanchi! che fanno il salto del trampolino sul proprio cuore pur di arrivare a qualcosa.

–          L’Arte non è fatta per ritrarre le eccezioni, e poi io provo una repulsione invincibile a mettere sulla carta qualcosa del mio cuore. Trovo anche che un romanziere non abbia il diritto di esprimere la propria opinione su nulla. Forse che il buon Dio l’ha mai detta la sua opinione? Ecco perché io ho non poche cose che mi soffocano, che vorrei sputare e che ringoio. Perché mai dirle in effetti? Il primo venuto è più interessante di Monsieur Flaubert, perché è più generale e per conseguenza più tipico.

–          Mi sono espresso male nel dirvi “che non bisogna scrivere col cuore”. Io ho voluto dire: non mettere la propria personalità in scena. Credo che la grande Arte sia scientifica e impersonale. Occorre con uno sforzo trasportarsi nel personaggio, e non attrarlo a sé.

–          Non credo che il romanziere debba esprimere la propria opinione sulle cose di questo mondo. Può comunicarla ma non mi piace che la dica. […] Io mi limito dunque ad esprimere le cose così come mi sembrano, a esprimere ciò che mi sembra il vero. Tanto peggio per le conseguenze.

–          L’artista deve operare in modo da far credere alla posterità che egli non sia vissuto. Meno me ne faccio un’idea e più mi sembra grande. Niente mi posso immaginare della persona di Omero, di Rabelais, e quando penso a Michelangelo, vedo, di spalle solamente, un vegliardo di statura colossale che scolpisce la notte al chiarore delle fiaccole.

–          Ma per l’idea che ho dell’Arte credo che non si debba mostrare le proprie [convinzioni], e che l’artista non debba apparire nella sua opera, come Dio nella natura. L’uomo è nulla, l’opera tutto!

 

IO, GUSTAVE

–          Vi sono in me, letteralmente parlando, due uomini distinti: uno in preda a ululati lirici, a grandi voli d’aquila, a tutte le sonorità della frase e delle vette dell’idea; un altro che fruga e sviscera il vero più che può, che ama mettere in rilievo il piccolo fatto con altrettanta potenza del grande, che vorrebbe farvi quasi sentire materialmente le cose che riproduce. Quest’ultimo ama ridere e si diletta della bestialità degli uomini.

–          Io sono un uomo-penna. Io sento grazie ad essa, a causa di essa, in rapporto ad essa e molto di più con essa.

–          Non sono altro che una lucertola letteraria che si riscalda tutto il giorno al sole del bello.

–          Io sono semplicemente un borghese che vive ritirato in campagna occupandosi di letteratura e senza niente chiedere agli altri, né considerazione, né onore o stima.

–          Io sono un barbaro, ne ho l’apatia muscolare, i languori nervosi, gli occhi verdi e l’alta statura; ma anche lo slancio, la testardaggine, l’irascibilità. Normanni come noi lo siamo, abbiamo qualche po’ di sidro nelle vene; una bevanda agra e fermentata che qualche volta fa saltare il tappo.

–          Se io sono, sotto il profilo sessuale, un uomo così saggio, è perché sono passato molto presto per stravizi superiori alla mia età, e intenzionalmente, allo scopo di sapere. Vi sono poche donne, che almeno mentalmente non abbia spogliato fino ai talloni. Io ho lavorato la carne da artista e la conosco. Mi sono posto il compito di fare dei libri e di mettere in fregola i più freddi. Quanto all’amore, è stato il soggetto di riflessione della mia vita. Qui non si è trattato di darsi all’arte pura. Quante volte ho sentito nei miei migliori momenti il freddo dello scalpello che mi entrava nella carne. Bovary […] sarà sotto questo profilo la summa della mia scienza psicologica e non avrà un valore originale se non sotto questo riguardo. Ne avrà? Dio lo voglia!

–          No, io non credo a nulla. Dubito di tutto, cosa importa? Sono più che rassegnato a lavorare tutta la mia vita come un negro senza la speranza di una ricompensa qualsiasi. È un’ulcera che mi gratto, ecco tutto.

–          Io non voglio essere membro di una rivista, d’una società, di un circolo, o di una accademia, come non voglio essere consigliere municipale o ufficiale della guardia nazionale.

–          Io non voglio far parte di niente; non voglio essere membro di un’accademia, di una corporazione, di un’associazione qualsiasi. Odio l’intruppamento,  regole e gradi. Beduino se vi piacerà, ma cittadino mai.

–          Sono d’argilla nel ricevere le impressioni e di bronzo nel conservarle; in me nulla si cancella; tutto si accumula.

–          Io, al contrario, ho uno spirito tenero e un cuore duro. Come il frutto del cocco che  contiene del latte racchiuso fra  croste di legno, occorre l’accetta per aprirlo, e cosa si trova spesso?, una specie di crema sbattuta.

–          Io non provo, come voi, questo sentimento di una vita che comincia, la stupefazione di un’esistenza che fresca si schiude. Mi sembra al contrario, che io sia sempre esistito e possieda dei ricordi che risalgono ai Faraoni. Mi vedo molto nettamente in differenti epoche  storiche, esercitare mestieri diversi e con fortune disparate. La mia individualità attuale è il risultato di individualità sparite. Sono stato battelliere sul Nilo, lenone a Roma al tempo delle guerre puniche, poi retore greco alla Suburra, dove sono stato rosicchiato dalle cimici. Sono morto durante la crociata, per aver mangiato troppa uva sulle spiagge di Siria. Sono stato pirata e monaco, saltimbanco e cocchiere. Forse imperatore d’Oriente, anche.

–          Ho trentacinque anni, sono alto cinque piedi e otto pollici, ho delle spalle da facchino e l’irascibilità nervosa di una piccola amante. Celibe e solitario.

–          A vedere il mio aspetto si direbbe che io sia fatto per l’epica, per i drammi, per i fatti bruti, e invece mi piacciono i soggetti d’analisi, d’anatomia, se posso dir così. In fondo sono un uomo di nebbie

–          Sono come un dromedario che non si può far camminare quando riposa e non si può fermare quando cammina; ma il mio cuore è come il loro dorso gibboso: sopporta dei pesanti carichi agevolmente e non si piega mai.

–          Ognuno di noi ha nel cuore una camera reale; io l’ho murata, ma non distrutta.

–          Solo la mia volontà segue una linea dritta, ma tutto il resto di me si perde in arabeschi infiniti.

–          Io sono l’oscuro e paziente pescatore di perle che si tuffa nei fondali e che risale, le mani vuote e  la faccia blu. Un richiamo fatale mi attira negli abissi del pensiero, in fondo ai gorghi  interiori, che non si estinguono mai per i forti. Passerò la mia vita a guardare l’oceano dell’arte dove gli altri navigano o combattono, e mi divertirò talvolta a cercare in fondo all’acqua conchiglie verdi o gialle, che nessuno vedrà. Ed io le conserverò per me solo e me ne tappezzerò il capanno.

–          Sono lento a prendere le decisioni, ad abbandonare delle abitudini.  Ma quando le pietre alla fine mi cadono dal cuore, esse restano per sempre ai miei piedi, e nessuna forza umana in seguito, nessuna palanca può smuoverne le rovine. Sono come il tempio di Salomone, non mi si può più ricostruire.

–          Sono come le tigri che  hanno nella punta del glande dei peli induriti coi quali straziano la femmina. L’estremità dei miei sentimenti ha una punta aguzza che ferisce gli altri, e talora anche me.

–          Ma in letteratura ci si ricorderà di me per molto tempo.

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