Letteratura
Su cosa significhi essere eroi
Achille e Odisseo, saggio narrativo di Matteo Nucci (Roma, 1970), non parla solo di due eroi che hanno combattuto a Troia. C’è molto altro, nelle tre sezioni in cui si divide il volume: altri importanti protagonisti, e tutto il pensiero che dall’antica Grecia ha nutrito la letteratura e la filosofia mondiale. C’è soprattutto un’approfondita indagine psicologica che mette a fuoco l’opposizione caratteriale dei due personaggi omerici, a partire dalla frase iniziale: “Uno era leone. L’altro era polpo”. Da un lato audacia, istinto, vigore fisico, irruenza, voracità; dall’altro prudenza, riflessività, agilità nervosa, calma, sobrietà. Entrambi avevano madri molto amate e un figlio lontano. Li accomunava anche la conoscenza di una stessa donna, che era riuscita a sondarne con acume e sensibilità le anime: Elena di Sparta, moglie di Menelao, amata da Paride. Così Elena, parlando a Priamo, definisce Achille e Odisseo: “Sono due uomini complessi come solo noi greci sappiamo essere. Quella è la loro forza. Del resto, sono opposti per ogni altro aspetto. Per quel che se ne diceva una volta, non avrebbero mai spartito il banchetto”.
I due infatti si erano fronteggiati in una terribile lite, di cui però Omero non narra nulla, quasi fosse stata talmente nota a tutti da risultarne scontato il resoconto. Ne fa cenno, provocando la profonda commozione di Odisseo (così dobbiamo chiamarlo, essendo il nome di Ulisse una latinizzazione posteriore, divulgata soprattutto da Dante) il cantore Demodoco, durante il banchetto offerto allo sconosciuto ospite dal re dei Feaci: “una volta contesero in un lauto banchetto di dèi / con parole violente”. La loro disputa fu probabilmente dettata dalla fondamentale e ineludibile diversità di indole, che li rese talmente differenti da farli diventare paradigmi di scelte e di esistenze contrapposte nell’intendere il senso della guerra, della vita e della morte: “Combatterono sempre in nome della stessa vittoria. Uno pensando alla distruzione. L’altro all’accerchiamento”.
Se Odisseo è presentato nel proemio del suo poema come polytropos, (“dai molti modi”), in grado di adattarsi a una realtà in continua trasformazione, e da sempre è stato indicato come persona scaltra, ingannevole, che usa la parola in maniera abbindolatrice, convincente e seduttiva (non aveva mentito in molte occasioni, con il Ciclope, con Neottolemo, e al suo ritorno a Itaca?), anche la rude schiettezza di Achille mostra qualche punto debole che la vulgata tardiva individua nel tallone: nell’essere terragno, indomito e prorompente rivela la propria vulnerabilità di giovane ostinato e collerico, che non sa piegarsi alle circostanze.
Secondo quanto suggerisce Platone nell’Ippia minore, una questione fondamentale contrappone i due guerrieri: il modo in cui intendono il tempo, il modo in cui lo vivono. “Achille è sempre gettato nel presente. Odisseo è sempre proiettato nel futuro. Achille pensa e dice solo cose che hanno a che fare con il momento che sta vivendo. Odisseo guarda perennemente oltre. Per questo Achille è schietto, spontaneo e impulsivo. Mentre Odisseo è prudente, attento, cauto e ingannevole”. Achille vive nel presente perché sa di non avere futuro, Odisseo è costantemente rivolto, con pensiero e azioni, al ritorno a Itaca.
Matteo Nucci (che nel suo commento esegetico usa il carattere tipografico tondo, mentre utilizza il corsivo nelle pagine d’invenzione) più volte torna sul concetto della fragilità degli eroi, convinto che non sia mai esistito nessuno che non abbia dovuto misurarsi con insicurezze, paure, difetti. Perché il vero eroismo significa “vivere fino in fondo la propria condizione mortale, combatterla tutta la vita, immergersi in un corpo a corpo costante con la propria finitezza”, essendo la brevità dell’esistenza indicativa della sua irripetibilità e singolarità, che la rendono superiore alla celeste immortalità degli dei.
In alcuni comportamenti erano stati simili, Achille e Odisseo. A quanto ci raccontano i miti post-omerici, nessuno dei due desiderava partecipare alla spedizione contro Troia organizzata da Agamennone: entrambi “cercarono scappatoie, astuzie, inganni pur di non lasciare la casa”. Odisseo si era coperto di stracci fingendosi un contadino intento ad arare i campi. Achille si era travestito da ragazza, confondendosi tra le figlie del re Licomede che lo aveva ospitato. Furono smascherati con espedienti più scaltri dei loro, unendosi in seguito all’impresa achea con subitaneo ardore: il più anziano scattante e nervoso, il più giovane imponente nei muscoli scolpiti.
Achille e Odisseo si comportano in maniera analoga anche all’inizio e alla fine dei due poemi omerici. Nei versi introduttivi piangono di infelicità, rabbia, rancore osservando la vastità del mare: il primo reclama Briseide che gli è stata sottratta da Agamennone, il secondo vuole tornare dalla moglie lasciando Calipso che lo tiene prigioniero da otto anni. Alla conclusione di Iliade e Odissea, tutti e due si confrontano con un’anziana figura maschile, Ulisse con l’irriconoscibile padre Laerte, Achille con Priamo di cui ha appena ucciso l’adorato figlio Ettore. “La specularità fra i due poemi si realizza all’insegna delle lacrime”.
Le lacrime, il canto, il cibo, la sensualità, la convivialità tra amici, il gioco, il combattimento, la ferocia sanguinaria, sono elementi che uniscono e insieme differenziano i caratteri e gli atteggiamenti dei due straordinari protagonisti omerici, in un unico sentimento che tutti li comprende: l’amore per la vita, l’odio per la morte.
MATTEO NUCCI, ACHILLE E ODISSEO. La ferocia e l’inganno
EINAUDI, TORINO 2022, p. 232
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