Letteratura
‘Stranieri a noi stessi’, il saggio narrativo di Rachel Aviv sul disagio mentale
‘Stranieri a noi stessi’ è la prima opera di Rachel Aviv, giornalista e scrittrice americana nota per i suoi lavori di giornalismo narrativo. Il libro, nella traduzione di Claudia Durastanti, è edito da Iperborea per la sezione di saggistica narrativa. La Aviv può contare già numerose collaborazioni con il New Yorker e il New York Times Magazine. Indubbiamente il suo stile di scrittura si caratterizza per l’approfondimento e la sensibilità nei confronti delle storie umane da lei affrontate. I temi trattati nei suoi articoli spaziano dalla medicina, all’istruzione, alla giustizia penale. Nel suo primo libro racconta la sua esperienza di anoressica e narra le storie di altre persone con disagi simili.
La prima storia del libro, quella raccontata nel capitolo di apertura, è proprio la sua. Si ritrova bambina all’interno del reparto dell’ospedale del Michigan dedicato alle ragazze anoressiche e scopre, pian piano, che esiste un modo per bruciare le calorie ingerite, basta sapersi auto-procurare il vomito, e capisce che controllare la fame significa controllare la propria vita. Per lei, però, l’anoressia non diventa mai una carriera, qualcosa di grave, un regime stabile all’interno di un’esistenza incerta, e passate poche settimane da quella prima esperienza, da un giorno all’altro, Rachel ricomincia a mangiare.
C’è una domanda di fondo che scuote l’autrice per tutta la durata del suo libro: e se non fosse andata così «bene»? Se il desiderio di emulazione verso quelle ragazze dannate e affascinanti avesse lasciato una traccia più profonda dentro di lei? Inizia così Stranieri a noi stessi, il racconto di cinque vite parallele, cinque persone le cui diagnosi psichiatriche hanno finito per impossessarsi delle loro identità. Un viaggio attraverso varie forme di disagio mentale, una forma di malattia che siamo sempre portati a rimuovere, perché la malattia, per la maggior parte delle persone, deve sempre essere qualcosa di visibile, magari utilizzando la strumentazione adatta per andare alla ricerca delle prove della sua esistenza, e mai qualcosa che non si vede, qualcosa di impalpabile, qualcosa di legato alle storie che ciascuno ha vissuto.
Il libro della Aviv sembra sostenere una tesi ben precisa: il disagio mentale è ancora un enigma, un terreno su cui il paradigma della medicina moderna diagnosi/cura sembra non stare sempre in piedi, dovendosi preferire in alcuni casi un approccio che guardi alla persona nel suo insieme, fino a mettere in discussione l’efficacia e l’utilità dei farmaci per combattere certe forme di disagio. L’autrice sembra voler tenere acceso un faro proprio su questi casi, quelli in cui l’efficacia del trattamento è legata a una Bapu, a un Ray, a una Naomi, a una Laura e una Haya prese nella loro interezza, lette nella loro storia complessiva, perché una persona è indivisibile dal percorso che ha fatto, dai traumi subiti e dalle botte prese nel corso della sua esistenza. E alla fine, dopo aver letto le storie delle vite raccontate nel libro della Aviv, viene il dubbio che l’autrice abbia effettivamente ragione.
Con estrema arguzia l’autrice utilizza le storie raccontate per discutere dell’avvicendamento tra approccio psicoanalitico e neurobiologico, per fare emergere quanto le discriminazioni di genere possano essere causa di disagio mentale, fino al rifiuto di alcuni psichiatri di trattare le rivendicazioni etniche e di classe come elementi intrinsechi della malattia. E poi c’è il mancato riconoscimento dello stress ambientale come fattore scatenante di disagio. Rachel Aviv con il suo giornalismo narrativo riesce benissimo a puntare il dito contro varie distorsioni che possono avere caratterizzato da metà del ‘900 in poi la psichiatria, la psicanalisi e le varie forme di trattamento del disagio mentale. Il primo elemento da mettere a fuoco, sembra sostenere l’autrice, sono le storie dei singoli individui. Dovrebbe essere questa la prima dimensione su cui lavorare. E la ragione per cui lei, bambina, è riuscita ad uscire dall’anoressia senza troppe difficoltà è questa: perché Rachel non aveva ancora una storia. Perché era ancora piccola e libera da tutti quei condizionamenti che invece avrebbe incontrato fosse stata una Bapu, un Ray, una Naomi, una Laura, oppure una Haya, descritta come suo alter-ego in una vita che poteva essere la sua.
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