Letteratura

Storia matta e profondissima di Keyla la Rossa

14 Novembre 2017

Perché Isaac Bashevis Singer – il Premio Nobel 1978, non suo fratello Israel Joshua, amatissimo autore da noi conosciuto soprattutto per I fratelli Ashkenazi e La famiglia Karnowski – non pubblicò né scrisse l’ultimo capitolo dello stupendo (ma davvero stupendo!) Yarme un Keile proprio poco dopo avere ricevuto il massimo riconoscimento letterario del mondo? Probabilmente perché era un romanzo “non facile” da dare in pasto al vasto pubblico di lingua inglese dei non ebrei. Infatti il volume che Adelphi ha appena mandato in libreria con il titolo Keyla la rossa era per la verità già uscito a puntate tra il dicembre 1976 e l’ottobre 1977, però sul quotidiano yiddish di New York Forverts (The Forward), rivolto e acquistato pertanto solamente da immigrati, osservanti e no, religiosi e laici, spesso socialisti e anarchici, talvolta chassidim, sionisti e “americani”, comunque donne e uomini immersi ancora nella più assoluta yiddishkeit, la cultura di un mondo scomparso, spazzato via.

Il coraggio e la tenacia della curatrice Elisabetta Zevi (semplicemente esemplare la trasposizione in italiano di Marina Morpurgo) stanno proprio nel non avere limato le asprezze e le crudezze con cui I.B. Singer usava addolcire i propri lavori nelle edizioni tradotte “per tutti”. E forse, a ben pensarci, nella scelta di non commercializzare e massificare Yarme un Keile, storia particolarmente “sporca” con accenni di “perversione”, ci può stare il dubbio di raffigurare un universo che comunque era stato da pochi anni inghiottito dalla Shoah e induceva quindi alla nostalgia e al rimpianto. Come affiancare il ricordo del Grande Massacro con il racconto della tratta di giovani fanciulle prelevate dagli shtetl più miserabili con la promessa di matrimoni e lavori onesti per venderle invece ai bordelli di Rio e Buenos Aires?

Certo, l’ambientazione di Varsavia così come quella newyorkese in buona parte le conoscevamo. La mitica via Krochmalna, inesauribile “miniera d’oro” come la definirono i fratelli Singer (lì abitarono per anni con la sorella maggiore Hinde Esther, figli di un Rebbe devoto e di una madre pia e insieme estremamente razionalista) era un effervescente teatro di vita costellato di carrettieri, venditori di aringhe, sarti e intellettuali, studiosi del Talmud e della Torah, macellai kosher, ladri e ricettatori, ruffiani e papponi, spie, circoncisori, assassini, acquaioli, venditori di ogni genere di merce. Mentre poi il Lower East Side diviene la loro realizzazione a volte deludente e spesso miserrima del sogno americano.

Senza raccontare la trama, posso dire che Keyla la rossa inchioda e commuove, fa sognare e ragionare. Una storia dove una sorta di raffinatissima cronaca nera si mescola alla filosofia, per certi versi alla teologia, all’amore nel senso del sentimento più casto e dell’eros più appassionato, travolgente. C’è anche la politica, l’etica, pezzi di realtà “eterna” e dunque più che mai valida anche oggigiorno. Personaggi e interpreti sono: Keyla la puttana dal cuore puro; Yarme, ladro, protettore, galeotto; Max lo Storpio, violentatore, ruffiano, bisessuale; Bunem, angelo biondo e peccatore, pittore, talmudista, figlio di un rabbino chassidico e… (non dirò altro).

Storia meravigliosa questa di Keyla la prostituta dai capelli rossi. Storia meravigliosa e matta. Matta e profondissima. D’altronde ha forse ragione Bunem: «È tutta una pazzia, ma non potrebbe essere la pazzia la vera essenza della vita? L’Onnipotente stesso potrebbe essere folle e i mondi che ha creato prodotti della follia. In principio non c’è stato l’universo, ma la follia. Come mai nessun filosofo l’ha capito?…».

 

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