Letteratura

Stirpe e vergogna, l’ultimo romanzo di Michela Marzano

26 Gennaio 2022

Si intitola Stirpe e vergogna l’ultimo romanzo di Michela Marzano. La quarta di copertina riporta questa frase: “Fuggo da quando ero piccola. Fuggo dal mio passato. Fuggo dalla colpa. Ma qual è esattamente la mia colpa?”

Questo romanzo viscerale, onesto, profondo, come chi sa analizzarsi e si lascia analizzare mostra una sensibilità e volontà di non voler più fuggire, ma di indagare, pur nella consapevolezza che l’indagare sfiora nervi scoperti e fa affiorare quei nodi dolorosi che costituiscono il ristagno delle nostre vite.

Michela parte dal nome del padre per ricostruire il suo rapporto con lui e la storia della sua famiglia.
“nomen omen”, dicevano i Romani, convinti che nel nome di ogni persona fosse indicato il proprio destino. Ma quale doveva essere il destino di mio padre? E il mio?”.

Michela Marzano non esiste, nessun documento ufficiale porta il nome con cui firma i sui libri, i suoi articoli. All’anagrafe è stata registrata col nome di Maria, Michela, Rosa, tre nomi separati dalla virgola. Maria era il nome scelto per il voto fatto alla Madonna quando la mamma non riusciva a rimanere incinta. Sebbene si fosse pensato a Manuela come secondo nome, optarono per Michela. Del primo non c’era traccia in famiglia, mentre Michele era il nonno materno del padre, il dottor Michele Campo. Siccome un amico convinse il papà di Michela ad aggiungere una virgola tra i nomi, perché quelli doppi creavano problemi, in nessun documento ufficiale compare Michela. L’unico pezzo di carta che provi che il suo nome non è solo Maria, è il certificato di battesimo che però non ha nessun valore legale.

Michela inizia, poi, un’indagine sul nome del padre che porta il nome del nonno: Ferruccio, a cui la mamma volle aggiungere anche Michele, come suo padre e Arturo come il marito.

La nascita del nipote, Jacopo, figlio del fratello Arturo, la spiazza. Dopo un mese dalla sua nascita, si reca a Roma dai genitori per trascorrere un po’ di tempo con loro. Sente urgente la necessità di fare il punto sulla sua vita, facendosi raccontare dalla mamma e dal papà la loro storia.

Frugando nei cassetti della scrivania del padre trova una fotocopia del certificato di battesimo: vi è riportato l’anno di nascita, 1936, è colpita, poi, dal fatto che oltre a Michele ed Arturo, compaiano altri due nomi Vittorio e Benito. Vittorio come Vittorio Emanuele III e Benito, Benito come Mussolini. Vittorio era un nome plausibile poiché il nonno era stato un deputato monarchico durante la II legislatura, ma Benito era un nome dissonante, privo di legami con la sua storia familiare. Cercando su internet, e andando sull’Archivio di Stato di Lecce – i genitori sono salentini – si rende conto che è possibile ottenere i dati anagrafici dei propri genitori semplicemente inviando una mail. Anche sull’originale dell’atto di nascita compare il nome Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito, tutto di seguito e senza virgole.

L’acquisizione di questa informazione getta una nuova luce sul passato di Michela. Interrogato, il padre le dice che ha raccontato il fatto di portare il nome del duce quando loro erano piccoli.

Il fatto è che il padre si è comportato con Michela come se fosse sempre stata piccola. Michela lascia Parigi e arriva a Pisa per il battesimo di Jacopo un giorno prima per poter stare un po’ con lui. Il padre le raccomanda di stare attenta alla testa del piccolo quando lei lo solleva e lo prende in braccio, Jacopo piange e il papà si rivolge alla moglie chiedendole di intervenire perché Michela non è capace. La sua mente fa un balzo indietro, la sua adolescenza diminuita dai giudizi severi del padre il quale dice alla madre che nonostante studiasse tanto, non aveva la stoffa per entrare alla Normale di Pisa.

Michela ha quasi cinquant’anni, l’orologio biologico ha decretato la fine della possibilità di essere madre. Da piccola non immaginava un futuro senza figli. All’epoca c’era la scuola in cui profondeva tutto il suo impegno, pomeriggi interi trascorsi a studiare, sacrificando i giochi, i vestiti e le frivolezze che la madre avrebbe voluto farle fare. Poi la Normale di Pisa, la laurea, il dottorato, non c’è stato tempo per pensare ai figli. Poi l’anoressia e i vent’anni di psicoanalisi. E poi quel sogno ricorrente che si riproponeva da adolescente: il litigio col padre. Un padre granitico, che era impossibile contraddire, di cui cercava l’assenso nel disperato tentativo di non deluderlo.

Ci sono voluti vent’anni di analisi per farle capire che non sarebbe mai cambiato. L’immagine della mosca che gira su se stessa prigioniera di un bicchiere capovolto ben descrive la volontà caparbia di ottenere un risultato volendo percorrere la stessa strada fino allo sfinimento, fino all’asfissia.

Michela non esiste, non solo nei documenti ufficiali, non esiste per il padre per cui l’anoressia, l’analisi, il non essere stata madre sono segni di un fallimento. Il padre analizza la vita come se fosse uno scienziato, la scienza non ammette anomalie, è oppure non è, fa o non fa, non ci sono zone grigie. Il suo nome, Ferruccio, è indicativo di un uomo che non riesce a considerare gli altri, a dare il giusto valore al di là dei suoi standard. I suoi valori sono quelli con cui giudica gli altri. Il successo di Michela, studentessa brillante, scrittrice di successo passa in secondo piano rispetto al fatto che non sia stata capace di generare. La vede monca, priva di quelle caratteristiche che secondo lui contraddistinguono una donna.

Dopo il battesimo di Jacopo, Michela accompagna i genitori a Roma, ha bisogno di cercare di capire la storia del nome del padre, perché Benito?
Il padre le dice che essendo il nonno fascista, era un dazio da pagare, era così in tutte le famiglie meridionali. Sentì il nonno ammetterlo nel 1953, quando si presentò alle elezioni politiche con il Partito nazionale monarchico e alcuni salentini, durante un comizio, lo fischiarono dicendo che era rimasto sempre fedele al Duce, lo attaccarono violentemente, affermando che faceva solo finta di credere agli ideali monarchici. Il nonno, rispose, allora che tornato dal fronte aveva seguito Mussolini, ma poi una volta vinto il concorso in magistratura nel 1922, non aveva più rinnovato la tessera del Partito fascista. Aveva prestato giuramento a Vittorio Emanuele III, e fino alla fine della sua vita era rimasto fedele ai Savoia. Michela si chiede perché era rimasto fedele ad un re che, subito dopo la firma dell’armistizio, era fuggito da Roma, abbandonando il suo popolo e pensando solo a salvare se stesso.

Il vero problema, però, che affligge Michela, e che il padre non scorge, è l’immediata adesione del nonno Arturo ai Fasci; sono passati poco più di sei mesi dalla fine della guerra e cinquantatré giorni da quando Mussolini ha fondato a Milano i fasci da combattimento. Si chiede come mai il padre che allora aveva sedici anni abbia lasciato correre senza domandare oltre, senza indagare. Il fascismo collideva col fatto che suo padre era diventato socialista quando era adolescente, un fabbro che abitava dietro casa gli aveva aperto gli occhi sulla questione meridionale e sulla giustizia sociale, valori belli come l’uguaglianza, il terzo stato, l’internazionale socialista.

Michela ricorda che quando era bambina e trascorreva le vacanze in Salento, a casa dei nonni, scorgeva in uno dei salotti, quello rosso, una teca piena di medaglie, una croce ricordo della guerra nei Balcani, bottoni militari, fascette e nastri. Si mette alla ricerca della teca, trovatala scorge anche la presenza di documenti, di un orologio, e di una tessera d’iscrizione al partito fascista. Nella prima pagina ci sono le informazioni sul percorso militare e fascista del nonno: non era stato un Sansepolcrista, era stato uno squadrista che aveva partecipato alla Marcia su Roma, aveva la sciarpa Littorio, decorazioni a valore militare, e aveva riportato ferite di guerra. Nella seconda una foto con sotto il giuramento prestato a Mussolini.

Il nonno non era uno che negli anni 20 aveva preso la tessera, quando l’avevano presa tutti, chi per far carriera o conservare il posto di lavoro, chi per amor di quiete, chi per bieco qualunquismo.
Convinta che solo la scrittura potrà aiutarla a fare i conti col suo passato, inizia a cercare articolo scritti dal duce sul “Popolo d’Italia” nel 1919, rilegge le parole pronunciate a San Sepolcro, e i resoconti che fecero i giornali. Si immedesima talmente in ciò che legge che le sembra di essere presente il 23 marzo, nel salone del circolo dell’Alleanza industriale e commerciale, vede Mussolini agitarsi e lo sente urlare tra le altre cose: “noi siamo per l’elevazione spirituale e materiale degli italiani”. C’erano ad ascoltare il Duce circa trecento poveracci: qualche ex combattente e qualche esagitato, alcuni socialisti interventisti.

Chiede, poi, al padre di nonna Giulia, la nonna di suo padre Ferruccio. Il padre le racconta che era morta nel 1923, che il papà Arturo le era legatissima, che era una donna molto buona succube del marito. In una delle due foto che la ritraggono, ha il solito viso melanconico e contratto. Arturo, come riportato da un’annotazione in basso a destra della foto, ha cinque anni, è accanto a lei e con la mano destra impugna una tromba, mentre con l’altra serra la manina di sua sorella Pia, che ha quattro anni e stringe al petto una bambola. Nonna Gulia, vestita di nero, ha in braccio la piccola Sara. In foto nessuno sorrideva.

A Michela, viene allora in mente una cornice con la foto del nonno che aveva portato con sé qualche anno prima in Francia. Dopo il trasloco l’aveva persa di vista, ricorda allora di avere una scatola accantonata in un armadio in cui c’erano riposti alla rinfusa oggetti personali. La apre e fruga tra le lettere, diari, foto, la cornice era posto in fondo. Sollevati i gancini di ferro che bloccano il vetro, tira fuori le fotografie, dietro ogni immagine c’è una didascalia con data, luoghi, circostanze e motivi.

Nella cornice ritrova la storia di suo nonno. La prima foto su cui si sofferma risale al 1917: il nonno è in divisa. La foto è in perfetta condizione, forse l’ha fatta scattare per inviarla alla madre. Giulia è preoccupata per le notizie che arrivano dalle altre madri che hanno i figli in Trentino. Non dice nulla al marito Ferruccio che leggendo i giornali, inveisce contro chi si ostina a condannare la guerra, e, urlando, in nome dell’amor di patria, sveglia Gino.

A Michela, torna in mente la medaglia di bronzo al valore militare cucito sul tessuto rosso della teca conservata a Roma e scrive a Stefano, un amico che studiala la Prima guerra mondiale per capire dove può trovare informazioni sulle medaglie. Le spiega che la maggior parte delle medaglie al valore militare venne assegnata nel 1922 e che deve cercare il nome del nonno in un regio decreto consultando la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia. Grazie all’aiuto di Stefano, trova il decreto e la motivazione per cui al nonno Arturo era stata assegnata la medaglia: si recava presso i reparti dislocati per animarli con la sua presenza e col suo contegno, trascinandoli poi con slancio contro posizioni da conquistare.

Il nonno nell’estate del 1917 combatteva sul Carso, ed era sottotenente del 154 reggimento fanteria, faceva parte della brigata Novara, la brigata che, a fine maggio, venne inviata dal generale Cadorna sul fronte di Castagnevizza, in sostituzione dell’ormai decimata brigata Barletta.

Pare che Luigi Cadorna, l’allora capo di stato maggiore dell’esercito italiano, fosse irremovibile: nonostante il morale scosso delle truppe, il moltiplicarsi dei morti, dei feriti e dei dispersi, le offensive frontali contro gli austroungarici dovevano continuare, i soldati italiani dovevano spezzare le linee carsiche per mettere il nemico con le spalle al muro. Cadorna aveva scommesso tutto sulla Bainsizza. La guerra doveva andare avanti e doveva essere vinta. Alla fine della decima battaglia dell’Isonzo, gli Austriaci si sono ritratti sulla linea che va da Tolmino a San Daniele.

La brigata Novara è con il Duca d’Aosta. E quando il 17 Agosto i cannoni concentrati a Bainsizza aprono il fuoco, i fanti del 154 reggimento approfittano dello sbarramento costruito sull’Isonzo, nei pressi di Caporetto, e si posizionano per sferrare l’attacco, tra l’umido che sale dal fiume che durante la notte entra nelle ossa, mentre le trincee sono infestate di topi e di pidocchi, e i viveri scarseggiano.

All’alba del 19 Agosto, la fanteria lancia l’attacco, il nemico e dapprima colto all’improvviso, poi reagisce con l’artiglieria e le mitragliatrici. Le truppe italiane non riescono a sfondare, rallentano, si bloccano, sono costretti a piegare su linee di partenza. I proiettili sono pieni di gas. Il sottotenente Arturo Marzano si sposta da un reparto all’altro, corre, incoraggia i compagni d’armi, li esorta a non mollare.
Il 20 Agosto, la brigata Novara lancia un nuovo attacco. Per tre notti consecutivi, le fanterie avanzano nonostante i grovigli di filo, le trincee spianate, le caverne crollate divenute cripte, i villaggi distrutti, le armi e le munizioni sparpagliate alla rinfusa, le pallottole, il fuoco, e le migliaia di cadaveri che giacciono sul campo. L’undicesima battaglia dell’Isonzo, nonostante la presa dell’altopiano della Bainsizza, si conclude con un nulla di fatto.

A Michela tornano in mente le parole di una canzone che co fratello cantavano da bambini: “il Piave mormorava calmo e placido, al passaggio dei primi fanti il 24 maggio”. Gliel’aveva insegnata il padre, ed era uno dei rari momenti in cui il padre si infervorava
Cantavano anche “Bandiera Rossa la trionferà, evviva il comunismo e la libertà”. Erano gli anni di piombo, e la madre cercava di zittire il fratello che la cantava a squarciagola per le strade.

Le scuole che Michela e il fratello Arturo frequentavano erano piene di fascisti. Michela che indossava i jeans stracciati e parlava di Berlinguer veniva appellata dai suoi compagni di classe “comunista”, mentre il fratello che non sapeva giocare a calcetto, “frocio di merda”.

È una storia cosi vibrante che va raccontata al presente, perché è la storia di tutti noi che celiamo le nostre esistenze dietro le maschere del non detto, del taciuto, di quelle zavorre che condizionano la nostra esistenza. È il nostro presente che non cammina privo di lacci, è invece ancorato al nostro passato, condizionato da esso, talvolta modellato.

Sono colpita dal fatto che nel titolo “Stirpe e vergogna” non ci sia l’articolo, la cui funzione grammaticale è quella di definire, determinare. Questa omissione, credo, sia dovuta all’intento dell’autrice di spiegare che una ricostruzione storica fedele necessita di indagare ragioni, motivazioni, sentimenti, diversamente senza una chiarezza e conoscenza approfondita, ci si limita a definire, fissare, secondo un punto di vista che nasce dalle nostre categorie mentali, dal mondo secondo il nostro percepito. La fissità è dei cimiteri, i vivi sono esseri umani poliedrici, i cui vari aspetti vanno conosciuti, non giudicati.

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