Letteratura
Spiegare la voce: il mistero della vocalità nel libro di Della Monica
Uno spettacolo di qualche tempo fa, il bellissimo Giulio Cesare di Shakespeare con la regia di Romeo Castellucci, si apriva con una sequenza inquietante: un attore si infilava una sonda video in gola e parlava o emetteva suoni. L’immagine proiettata su un grande schermo mostrava dunque l’apparato vocale in funzione, le corde vocali che si tendevano e muovevano: era intenzione del regista, infatti, collegare la retorica dei protagonisti – Cesare, appunto, e Bruto o Cassio – alla origine “carnale”, fisica della voce.
Gran mistero, quello della vocalità: le parole sono tutto, nella nostra vita, anche se – è stato dimostrato – la gran parte della comunicazione interumana è non verbale, ossia fisica, corporea. Però ci sono quei suoni, quelle parole che acquistano valore assoluto. Tanto più per chi, come cantanti o gli attori e le attrici, fanno di quella emissione di suoni un’arte o comunque un lavoro.
Allora arriva in modo molto opportuno e affascinante un bel libro di Francesca Della Monica, che è apprezzatissima cantante, compositrice e filosofa della musica. Della Monica ha lavorato con i maggiori registi italiani, mettendo a punto una sua metodologia di studio della voce legata alla scena. Per questo, è docente alle scuole di teatro di Torino, Milano, Genova, Siracusa e all’Università di Bologna. Sin dal titolo, il volume, edito da La Casa Usher a fine 2022, è un brillante interrogativo. Si intitola, infatti, “A voce spiegata”, che è un bel gioco di parole: quello “spiegata” può essere inteso come frutto di una spiegazione, di un approfondimento (e lo è), ma può essere interpretato anche come “a voce distesa”, ossia aperta, libera.
Della Monica, insomma, mostra subito il nodo centrale: che ne facciamo di queste nostre voci? Come le utilizziamo? Il libro è diviso in tre sezioni: “I temi”, legato alla visione teorica, antropologica e filosofica del fenomeno vocale; “Le immagini”, ovvero una traduzione visiva e di situazioni dinamiche della gestualità vocale e di interpretazione e risoluzione del problema della voce; e infine “Le lezioni”, ossia una proposta didattica illustrata nella pratica viva. Dunque, la voce come problema: «Dalla patologia all’affaticamento – scrive – alla difficoltà nell’ottenere determinati risultati come intonazione, altezze, volumi, spazi, spessori, timbri, dal non riuscire a farsi intendere al non amare la propria voce». Questo lo spettro di difficoltà che toccano non solo i protagonisti della scena, ma anche chi con la voce comunque lavora in un piano di relazioni interpersonali ampie: dai docenti, professori e maestri, ai manager, dai poeti a tutti noi comuni cittadini che, ogni tanto, proviamo a “farci sentire”.
Dice l’autrice: «metto a disposizione la cartografia delle terre emerse e sommerse che sono andata mappando, le dimensioni che ho scoperto, gli strumenti che sono andata raffinando, le strategie che ho trovato, le visioni che si sono aperte al mio interrogare e intendere l’universo sconfinato della voce». La metafora cartografica non è la sola che accompagna questo studio. Nel suo percorso, infatti, Francesca Della Monica, oltre la musica (è diplomata al Conservatorio Cherubini di Firenze) ha incontrato la filosofia e l’archeologia, cogliendo da entrambe le discipline spunti e studi che ha riversato poi nella teoria e nella pratica teatrale. Allora l’approccio di Della Monica è quasi archeologico, di “archeologia vocale”: «Una delle prime cose che viene insegnata a uno studente di archeologia è che gli strati che l’azione di scavo incontrerà devono essere tolti rispettando la successione in cui si sono sedimentati. Lo scavo, come in un happening di arte effimera e come nel dire, nel cantare, nel recitare, mentre si compie si esaurisce. Allo stesso modo il sedimento una volta prelevato sparisce e rimane quello che siamo riusciti a comprendere. Per questo è importante riconoscere gli orizzonti che si stratificano e la dinamica della loro stratificazione, esattamente come è fondamentale riconoscere nel fenomeno vocale la complessità e la diversità degli orizzonti semantici che lo compongono. Per riconoscere e descrivere gli strati di terra di un giacimento archeologico si ricorre a una terminologia sorprendentemente musicale: grana, estensione, cromatismo, spessore, consistenza». Termini che dunque ben riflettono le caratteristiche vocali di un o una cantante, con cui Della Monica lavora al fine di far “spiegare” le singole voci, fino a costruire una vera e propria «drammaturgia vocale: per me lavorare con la voce di attori, cantanti e con chiunque voglia fare dell’atto del parlare e del leggere qualcosa di profondo e consapevole, significa soprattutto fare una complessa, paziente e faticosa operazione di drammaturgia. Cantare, recitare una canzone o un testo, parlare in privato o in pubblico, richiede all’interprete la necessità di scegliere, significare o ri-significare a proprio modo ogni intervallo, ogni durata, ogni pausa, il persistere in una tonalità o le modulazioni (…) I cantare perciò non significherà limitarsi a intonare, ma piuttosto prestare il corpo al pentagramma, svegliare il processo della memoria che lega il nostro vissuto, il nostro immaginario e il nostro “essere” a quei segni scelti».
La cosa affascinante, però, è che la questione, come accennato, non è solo appannaggio degli addetti ai lavori o degli artisti. Pensiamo a una frase comune come dire “mi manca il fiato”: a me capita ogni seconda rampa di scale. Ebbene, anche in questa prospettiva si muove l’indagine dell’Autrice: «mi ha sempre interessato osservare le dinamiche della respirazione che accompagnano l’emissione in frangenti complessi, problematici, conflittuali». Un problema di respirazione, dunque, su cui si può agire lavorando con la consonante “L”: «vocalizzando la consonante “L”, osserviamo l’attivazione del mantice addominale e la perfetta circolarità del ciclo respiratorio». Ma c’è un altro aspetto che pur sarebbe di immediata evidenza, sul quale però raramente ci soffermiamo: l’ascolto. Chi ascolta più? Siamo abituati a tribune televisive dove tutti urlano, facendo dell’interlocutore un semplice bersaglio.
Della Monica insiste invece sulle forme dell’ascolto, sulla ricerca sull’ascolto non dell’Io ma dell’Altro: «durante l’atto drammaturgico che ogni azione vocale parlata o cantata determina,
come è possibile fondare uno spazio vocale di interazione se la mia concentrazione è tesa prevalentemente o unicamente all’ascolto di me stesso?».
Ma l’analisi di vocali e consonanti non si ferma qui. A proposito di vocali, fa notare l’Autrice che «in molte delle lingue neolatine e negli idiomi di regioni che hanno conosciuto la dominazione romana, come l’attuale Inghilterra o la Germania, si incontra una forte presenza della “i” nella formazione del pronome personale di prima persona, si veda “io” italiano, “je” francese, “yo” spagnolo, I”ich” tedesco, “I” inglese.
La “i” vocale dominata dalla volontà e dal dovere, tende a essere proiettata più che spazializzata». E qui si innesta subito un’altra questione: spazializzata dove? La nostra comunicazione vocale (artistica o quotidiana) ha sempre un referente spaziale. Sono gli spazi dell’azione vocale. Francesca Della Monica dice in proposito che si tratta di «percepire uno spazio con la voce: se è vero che un suono è un evento essenzialmente e squisitamente temporale è pur vero che un suono non può prescindere da uno spazio di amplificazione e di emanazione». Si individuano così gli spazi nella pratica della gestualità vocale: spazio fisico, visibile o no; spazi di relazione con le rispettive prossemiche; spazio logico progettuale e il paesaggio vocale: «la polifonia degli spazi fisici, di relazione, di quelli legati alla storia, al mito e al “paesaggio”, assieme alle conseguenti reazioni corporee, alle prossemiche, alle proiezioni vocali, determinano un campo di forza sempre mutevole e attivo che sottopone il soggetto fonante sia a livello razionale, che emozionale e fisico a una presenza e a un ascolto continui e febbrili, pena l’impossibilità o la genericità di una rappresentazione del sé attraverso la voce». Si arriva così, alla seconda parte del libro, dedicata alle immagini, estremamente legate proprio alla “rappresentazione del sé”, in un percorso identitario di costruzione del proprio mondo attraverso la voce. «L’immagine non tanto vista, ma visualizzata nella nostra mente – scrive – può farci compiere e far compiere alla nostra voce un viaggio nella quotidianità e nella straordinarietà e farci capire attraverso il corpo, oltre che attraverso il pensiero, la complessa stratigrafia dei linguaggi della manifestazione vocale». E le immagini sono le più diverse: il ponte di Michele De Lucchi sul fiume Mtkvari per la città di Tblisi; il gesto del porgere del bravo cameriere; strappare la pelle del serpente; salire su un albero; panificare; la pianta che cresce; le colonne d’ercole; l’onda sulla battigia; le orme scoperte nel 1978 a Laetoli in Tanzania da Mary Leakey; una pilotina del porto di Piombino; il nocciolo della drupa; infilare la mano nel guanto; e infine la pratica della Xenia. Per ciascuna di queste vi è un preciso rimando, una attitudine, un modo, un lavoro da fare per aprire e far vivere la voce. La terza parte del libro, come detto dedicata alle Lezioni, è un dettagliato diario di lavoro alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, ricco di esercizi, esempi e spiegazioni.
Ampia e affascinante è la conclusione, del laboratorio al Piccolo come del libro: «farsi capire, differentemente dal farsi sentire, produce in chi sta parlando, cantando, recitando, leggendo, un processo di profonda connessione con gli interlocutori, con lo spazio e con la parola che viene a manifestarsi. La responsabilità di farsi capire fa sì che ci sia maggiore precisione nell’articolazione, nella ri-significazione del testo, parlato o recitato che sia, e una reazione corporea e funzionale, oltre che drammaturgica, coerente e proporzionata alla situazione relazionale e contestuale. Farsi sentire non è sufficiente a scatenare tanta presenza e tante reazioni sensoriali, logiche e fisiche. Ci possiamo far sentire senza preoccuparci troppo dei nostri interlocutori o semplicemente trattandoli alla stregua di bersagli. Preferisco perciò l’idea della spazializzazione piuttosto che quella della proiezione così come trovo insufficiente il dire rispetto al comunicare (…) la voce traduce le nostre intenzioni in azioni, in gesti che attraversano lo spazio, restituiscono al suono, considerato evento puro del tempo, la sua potenza di manifestazione corporea oltre che psichica».
Va bene per cantanti, attrici e attori: ma serve, più che mai, in questa società parcellizzata, ormai incapace di comunicare, ridotta a scambiarsi emoticon di faccine sorridenti e pollicioni alzati, oppure a fare del grido e della sopraffazione vocale l’unico modo di parlare. La responsabilità di farsi capire è un invito, non solo una lezione, ad essere cittadini migliori.
Per info: La Casa Usher
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