Letteratura
«Sette sere», il testamento di Borges
Sette conversazioni pubbliche sul far del buio. Nell’ordine: La Divina Commedia; l’incubo; Le Mille e una notte, il buddhismo, la poesia, La Cabbala, la cecità. Sette sere è la trascrizione di queste conversazioni in pubblico tenute da Jorge Luis Borges tra giugno e inizio agosto 1977 a Buenos Aires al Teatro Coliseo. Un insieme di testi che all’uscita della versione in spagnolo nel 1980 Borges accoglie come il suo testamento.
Parto dall’ultima conversazione serale “la cecità” – che credo contenga il senso complessivo della riflessione pubblica che attraversa gli altri sei appuntamenti che lo precedono.
Borges ha riflettuto spesso sul problema della cecità. Non con dolore, o con malinconia, volendo suscitare sorpresa, non compassione. Lo ha fatto prendendo il suo ascoltatore/lettore per mano e portandolo dentro una condizione per raccontarla e trametterla da un punto di vista inaspettato. Ne L’artefice, raccolta di 24 brani in prosa e 29 poesie, il testo che introduce la raccolta (ha lo stesso titolo del libro) racconta di un uomo che, finché aveva goduto del bene della vista, “non s’era mai attardato nei piaceri della memoria”: “Le impressioni scorrevano su di lui, momentanee e vivide”. Era stato un uomo abituato a vivere nel presente; divenuto cieco scende nella vertigine della memoria, che ora per la prima volta “gli parve interminabile”.
È una condizione, che avverte Borges chi vede non può provare, così come inaspettata è la stessa condizione della cecità, del suo colore. Più volte descritta come oscurità, come nero imperante, dice nella conferenza che chiude Sette sere, che uno dei colori che i ciechi rimpiangono è proprio il nero. “Il cieco – scrive – vive in un mondo indefinito dal quale emerge qualche colore. Nel suo caso: il giallo, il blu che trascolora al verde e viceversa; mentre il bianco è sparito o si confonde col grigio e il rosso è sparito del tutto”.
Così come quella condizione di cecità spesso si presenta come conclusiva, come ultima. Trovare una via per non soccombere a questa condizione ad un tempo annichilente e inibente, suggerisce Borges, è possibile solo se coniughiamo che la conclusione di qualcosa obbliga a trovare come incominciare una nuova cosa, diversa. “Un consiglio salutare aggiunge, benché di difficile attuazione, giacché sappiamo quel che perdiamo, ma non ciò che guadagneremo”. E conclude: “Abbiamo un’immagine a volte negativa di ciò che abbiamo perso, ma ignoriamo che cosa potrà sostituirla, o cosa potrà accadere” [p. 153]. Soprattutto quali immaginari letterari si originano dalla condizione di cecità: da Omero a Milton a Joyce, la cecità si presenta non come impedimento, ma come sensibilità, come condizione per dare alla lingua e alla struttura del testo letterario, o al dialogo una forza o una piega che spesso sfuggono a chi cieco non è.
«Cecità», la conferenza che chiude il ciclo, è una buona sintesi per avventurarsi nelle altre sei «passeggiate»: dal cosmo della Divina Commedia – dalla foga di Ulisse che Dante descrive e dalla sua sete di sapere (un profilo che ricorda che cosa trattiene dell’Ulisse dantesco Primo Levi nel capitolo XI di Se questo è un uomo) all’ambito dei sogni che, osserva Borges in due righe che valgono il libro: “non possiamo analizzarli direttamente, possiamo solo parlarne per il ricordo che ne abbiamo” [p. 40].
Il sogno più che la descrizione di qualcosa che non c’è e che forse ci sarà, è l’approssimazione per difetto a qualcosa che non siamo in grado di descrivere, o di vivere compiutamente, ma solo di rievocare parzialmente. All’apposto della poesia – precisa nella conferenza dedicata a questo tema – che non è il verso, ma è l’incontro con le possibilità generative e immaginarie del suono, della lingua (una riflessione che probabilmente deve molto ai versi di Terra desolata di Eliot, ma anche, forse, ai versi del Montale di Finisterre).
All’opposto fermarsi sulle parole, alle volte sulle singole lettere – perché è lì che risiederebbe l’autentico, prima ancora che il «vero» che le innervano – è tralasciare il suono, non alludere a ciò che esse evocano, ma al significato vero di cui testimoniano. È il punto di partenza da cui si origina la riflessione sulla cabbala, forse il testo più sovversivo di questo libro (pp. 129-146), così a me pare, non so allora tra gli ascoltatori di Borges. Un testo il cui scopo è annichilire il fascino della libertà che l’interpretazione cabbalistica suscita ed affermare, la condizione di oppressione di cui si fa paladino e che esercita chi si accredita come suo paladino. Un segmento rilevante di quella mentalità fondamentalista che caratterizza il tempo che furbescamente si autodefinisce «post-ideologico». Ovvero questo tempo.
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