Letteratura
Servire ai piani
Alla reception le avevano detto che il direttore l’aspettava nel suo ufficio. Prese l’ascensore e salì al terzo piano. Lì si trovavano alcune stanze per il personale, una stireria, altre porte con l’indicazione “Privato”. Erica si sedette su una poltroncina in attesa di venire chiamata, o forse invece doveva bussare, ma temeva di risultare impaziente. Si guardava intorno, nel corridoio vuoto e silenzioso, con le stampe appese alle pareti, tre piante finte in vasi voluminosi, la moquette grigia macchiata in due punti proprio vicino ai suoi piedi. “Eccomi, entri pure”, si era affacciato il direttore aprendo appena la porta. Alto e occhialuto, vestito con sobria eleganza, all’apparenza cinquantenne.
Era emozionata, lui sembrava sicuro gentile e severo. Le fece poche domande, scorrendo con rapide occhiate i due fogli del suo curriculum. Lei rispose esitante, che aveva diciannove anni e si era fermata alla seconda classe dell’istituto alberghiero, dovendo occuparsi del padre e della sorellina dopo la morte della mamma. Sì, parlava un po’ di inglese, era sana e robusta, resistente alla fatica, e vantava ottime referenze: di una famiglia privata in cui per due anni aveva prestato servizio come domestica tuttofare, e di un ristorante del centro città dove aveva lavorato come cameriera ai tavoli. “Caratterialmente?”, chiese lui, scrutandola bene in viso. Lei non capiva. “Voglio dire, riesce a gestire bene i rapporti con i colleghi e i superiori? Saprà che il nostro è l’Hotel più raffinato ed esclusivo della città, con una clientela scelta, e una reputazione da preservare. Quindi, niente polemiche, litigi, pettegolezzi”. Erica annuiva, sperando che la sua timidezza garantisse già per lei. “Va bene”, concluse il direttore, alzandosi e porgendole la mano da stringere. “Due mesi di prova, e poi l’eventuale assunzione. Si occuperà del servizio ai piani. Passi alla contabilità per i documenti, il contratto e la firma. Al guardaroba le forniranno due divise. Mi raccomando: pulizia personale, rispetto verso tutti e discrezione assoluta con gli ospiti”.
Discrezione assoluta con la scelta clientela: questa le sembrò la richiesta più scontata da parte dell’amministrazione, e la più facile da eseguire per lei, che si sapeva riservata in maniera addirittura eccessiva. La divisa le stava benissimo, grembiule azzurro, cuffia bianca, zoccoli sanitari. Le presentarono la collega con cui avrebbe lavorato in coppia (Amelia, moldava, quarantaduenne, brusca ed energica), e le dissero di presentarsi puntuale alle 7 il lunedì successivo, con un certificato medico di buona salute e i risultati degli esami sangue-orina. Suo padre e sua sorella accolsero la notizia dell’assunzione con orgogliosa complicità. Il papà facendole mille raccomandazioni e informandosi sullo stipendio, Giada eccitata all’idea dei resoconti futuri di Erica sugli incontri con persone importanti all’Hotel International. “Chissà chi potrai conoscere! Magari un cantante, un’attrice famosa”, la ragazzina già si immaginava che un nobile o un ricco industriale potesse diventare suo cognato. “Ma va’! Rifarò i letti, pulirò i gabinetti. Nessuno si accorgerà di me. Spero solo che mi lascino la mancia”.
Già dopo qualche giorno di lavoro si accorse di avere avuto ragione nelle sue previsioni. Amelia le aveva insegnato come preparare il carrello delle pulizie, con quali detersivi, stracci per la polvere e spazzoloni. Si erano da subito divise gli incarichi: mentre una passava l’aspirapolvere, l’altra doveva cambiare la biancheria e rassettare i cuscini. A ogni cambio di cliente, controllavano armadi e cassetti, rifornivano il frigobar, disinfettavano il bagno, spolveravano accuratamente finestre e specchi. La collega l’aveva presto avvertita, nel suo italiano disinvolto “Più sono ricchi più sono unti”. “Unti?”. “Sossi, zozzi, porci”. Infatti trovavano spesso i water intasati, assorbenti e tamponi insanguinati per terra, biancheria sporca lasciata sotto le lenzuola. Raramente qualche euro come ricompensa sul comodino. Poi, tutta questa gente celebre, Erica mica l’aveva mai vista. Signore eleganti, certo. E uomini d’affari distinti, sempre di fretta e scontrosi. Qualche giovanotto vestito come un modello, e ragazze truccatissime. Niente di straordinario, però. Solo una volta aveva riconosciuto in un uomo anziano la fisionomia nota di un personaggio televisivo, di quelli che si agitano nei talkshow, ma non sapeva se fosse un politico o un giornalista.
Mesi dopo (era stata assunta in pianta stabile, e i suoi superiori sembravano contenti di lei), mentre si affrettava di mattina presto verso l’Hotel, vide appesi ai muri della città una fila di manifesti giganteschi che annunciavano il concerto della sua rocker preferita al Palazzetto dello Sport. Fece mentalmente il calcolo del turno di lavoro che le spettava, già eccitata al pensiero di poter assistere al primo spettacolo serale.
Quando mise piede nella reception, trovò il personale in agitazione. “Sai chi viene? Ha prenotato da noi!” “E dove mai, altrimenti?”, pensò Erica, a cui prima non era nemmeno venuta in mente un’ipotesi del genere. “Certo che dormirà qui, siamo l’Hotel più bello della città…”. “Arriva domani alle undici”, comunicò il direttore con un sms a tutti i dipendenti. “Occuperà la suite n. 2”. La più spaziosa e ricercata dell’albergo. Amelia ed Erica furono incaricate della preparazione della camera: ci si impegnarono come aspettassero un membro reale, lucidando e profumando dappertutto, e insieme canticchiavano le hit della star, correggendosi a vicenda sulle parole sbagliate. Erica posò con emozione tre cioccolatini sul cuscino dove il suo mito avrebbe poggiato la testa: le tremava la mano. Il direttore passò a controllare. “Va bene” approvò, serio. “Mi farò consigliare sui fiori: voglio una stanza sofisticata ma allegra. Giovane, come la nostra ospite”. Le due cameriere, appena sole, si misero a saltellare, a battere le mani, imitando le torsioni acrobatiche della loro cantante. Tornata a casa, quella notte Erica dormì pochissimo, svegliandosi di soprassalto come se qualcuno la chiamasse, ma sottovoce, a suggerirle qualcosa da fare urgentemente.
Prima di mezzogiorno la star arrivò. Su una BMW guidata da un tizio sbracato e assonnato, scortata da una seconda automobile da cui uscirono cinque giovani: il manager (forse), la truccatrice, e gli altri chissà. Lei era bella, tenera e stanca. A Erica, che spiava nella hall dalla vetrata del primo piano, sembrò piccola di statura, e anche di età. Quasi una bambina. Salutò spaesata la concierge e i due fattorini che si affannavano intorno ai suoi bagagli, rispose con un moto della testa all’inchino del direttore, senza un sorriso. Poi si lasciò accompagnare all’ascensore, e si chiuse in camera. Fu proprio Erica a doverle portare il pranzo, poco prima delle due. Bussò ansiosa alla porta, e all’invito di lei spinse il carrello in mezzo alla stanza. Era sdraiata sul letto, coperta da una vestaglietta gialla e con i capelli raccolti in alto sulla nuca. “Poggia pure lì”, le disse indicando la scrivania sotto la finestra. Aveva ordinato risotto allo zafferano, verdura cotta, acqua minerale frizzante, tre bottiglie di birra, e una di Merlot. “Queste, per dopo il concerto”. “Ci sarò anch’io”, riuscì a sussurrare Erica, ma non trovò il coraggio di chiederle l’autografo sul blocchetto che aveva in tasca. “Bene, spero ti divertirai”, rispose lei, ma senza alcuna gentilezza, quasi scocciata. Poi, forse pentendosi del tono asciutto, le chiese come si chiamasse, e commentò il suo nome: “Come mia cugina”, facendole cenno con la mano di uscire.
Erica si sentiva avvampare, e col cuore in gola cercò Amelia per raccontarle quello che aveva visto. “È strana, sai? Sembra arrabbiata, o triste. Forse nervosa”, tentava una giustificazione al comportamento della diva. Che la sera, al concerto, fu di nuovo incredibile: regalò al pubblico elettrizzato due ore di musica sfrenata, senza risparmiarsi, attraversando il palco come un’ossessa, investita da fasci di luce blu, verde, bianca, che la proiettavano su schermi giganti, con la bocca spalancata nello sforzo di sovrastare col canto le urla della gente ammassata, in piedi sulle gradinate e sotto la tribuna. Muoveva il corpo con la flessibilità di un’acrobata, inesauribile ed energica, incitando gli spettatori in un ritmo vorticoso e sensuale. Erica sugli spalti più in alto, in compagnia di sua sorella e di Amelia, si dondolava come in trance, sudata e finalmente scomposta, finalmente libera.
Il giorno dopo, puntuale al lavoro, con la sua divisa azzurra, la cuffia bianca, gli zoccoli sanitari, bussò alla porta dell’artista per la colazione: era ancora carica dell’emozione della serata, e grata, e felice, desiderosa di toccare e abbracciare la sua divina, se solo avesse potuto. Lei era sdraiata bocconi sul letto, seminuda, appena coperta dal lenzuolo. L’odore di vomito era fortissimo, misto a quello di alcol. Le si avvicinò, chiamandola piano: “Signora, la colazione”. “Non voglio”, la voce come di una bambina, tanto diversa da quella possente della notte scorsa. Alzò la faccia minuta dal cuscino, col trucco sbavato, gli occhi gonfi: “Sono stata male, scusa.” Erica appoggiò il vassoio sulla scrivania. Si avvicinò al letto per aiutarla ad alzarsi. “Ho sporcato per terra, in bagno. Scusa”. “Non fa niente, non fa niente. Ieri sera è stato bellissimo”. “Ti chiami Erica, vero? Come mia cugina”. Cercò di tirarsi su. Erica la sosteneva. Dio, la stava stringendo a sé! Aveva tra le braccia la più famosa rocker d’Italia. Lei si avvinghiò alle sue spalle a peso morto. Puzzava. “Facciamo cambio, Erica, vuoi? Facciamo cambio?” “Cosa?” “Io vorrei essere una cameriera ai piani, come te”, piagnucolava, stampandole sulla guancia baci bagnati di saliva.
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