Letteratura
Serotonina, terapia d’urto Houellebecq
Se c’è un modo generoso per esorcizzare la depressione è la scrittura vivace prodotta da un depresso.
Quando uno scrittore varca la soglia del proprio male e produce un romanzo biografico che rivela l’umano nella malattia – a prescindere dalle sue posizioni ideologiche – ecco per milioni di depressi e psicolabili un certo sollievo: la specularità, il riconoscimento di sé, il lenimento a passive farneticazioni che trovano un valido esecutore.
E’ il caso di Serotonina, ultimo romanzo di Houllebecq uscito in Italia a gennaio scorso per i tipi di La nave di Teseo; un lavoro di oltre trecento pagine nel solco di una “letteratura psichiatrica”, incarnata tra i tanti anche da Ottiero Ottieri e resa famosa dalle pagine dell’emblematico male oscuro di Giuseppe Berto, oggi riedito da Neri Pozza.
In prima persona, Houellebecq racconta di Florent-Claude, un uomo di 46 anni che abbandona tutto, volontariamente scompare dalla propria vita di impiegato parigino presso il Ministero dell’Agricoltura, fidanzato di una giovane e introdotta giapponese. E’ il Captorix, la pasticca bianca e ovale che tutto reinterpreta, a racchiudere nel proprio nome l’essenza del romanzo: l’”essere “capto”, preso, braccato, il vivere nella cattività di un sistema socio-economico inclusivo ma ingannevole, concessivo eppure fatale alla resistenza psico-fisica dei reduci più umani. Così Florent-Claude Labrouste, reietto, alter ego dell’autore, immunizzato da dosi via via più massicce dell’antidepressivo, dà voce a una ricognizione sulla propria esistenza annientata in un presente solitario fatto di ricordi che tornano violenti a rimpiazzare la vita e chilometri percorsi in auto per lande desolate; lo sfondo si muove tra interni in affitto e il più ampio habitat della società contemporanea (spesso connotato da momenti di ristorazione, di consumi quotidiani, o nella distribuzione sociale dei luoghi di passaggio), tra fughe rurali in Normandia e tentazioni suicide, intensi rigurgiti d’amore e cinismo dimissionario. Un evento interiore del protagonista che avvicina la storia al crimine è la sua tentazione all’infanticidio per riconquistare il primato affettivo sulla perduta fidanzata rimasta sola col proprio bambino; un intenso passaggio in cui finzione, patologia psichiatrica e primitivismo anarchico dell’autore si contendono il dubbio che tale resta sulla natura di alcune pagine.
Serotonina è un capolavoro di equilibrio tra talento e atrocità; dietro la maschera del profondo, l’inanità di superficie tesse una storia che risulta penosamente credibile. E viceversa, una profondità che invoca l’estasi e il divino, detta alcune righe che valgono l’indigestione di tante aberrazioni e scorrettezze.
Certo, non è la questione psichiatrica ad esaurire questo libro (a dispetto di un titolo fin troppo esplicito): Serotonina è anche un’opera morale contro l’etica del successo narcisistico-individuale, contiene elementi di comicità a sfondo sessuale e culinario, dissemina spunti di critica storico-economica immergendo personaggi e situazioni nell’ambiente socio-produttivo a cui appartengono. Per tutto questo, non ammorba il lettore con la sola agonia depressiva del protagonista, al quale peraltro Houllebecq affida in partenza un patrimonio di settecentomila euro con cui potersi mantenere inattivo, lussuosamente libero da costrizioni, per un tempo adeguato alla parabola che in ultimo lo riporterà a Parigi uguale a prima.
Per chi segue da anni Houellebecq, è tutto piuttosto scontato e ogni commento un orpello inutile, ma in termini più collettivi non lo è; per uno scrittore dalla sua biografia, giunto al successo di critica e anche di pubblico dopo anni presumibilmente difficili, Serotonina è un caso letterario almeno quanto i precedenti romanzi: la sua abilità di scrittore supera anche stavolta la prova di ir-realtà e l’ovvietà spietata della retorica catastrofista; il libro si ammanta di un fascino oscuro che altro non è che il talento dell’autore (ben trasmesso dal traduttore Vincenzo Vega); la scrittura (necessariamente falsa) viene recepita come vera (se non nei fatti, nelle intenzioni); le nefandezze mentali e le contraddizioni del tenero-spietato-potente-impotente Florent-Claude Labrouste infondono un misto di pietà e simpatia anche perché intuite come esigenze irreprimibile dell’autore.
Un libro che si apre e si conclude con le virtù lenitive di uno psicofarmaco chiamato Captorix, che nelle ultime righe ricorda in chiave personale il martirio di Cristo (E’ proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per quei miserabili?) interrogandosi – più volte nelle pagine da poeta-filosofo quale è – sul senso della felicità e dell’amore, non può essere liquidato con due civetterie sulla retorica nichilista, maschilista e nazionalista; bisogna dare atto a Houllebecq di un certo coraggio e forse, addirittura, di una propria intima bellezza, quella che consente a pochi di salvarsi nel profondo immolando le proprie mostruosità in pubblico, svelando dietro il simulacro della bestia la profondità abissale dell’uomo.
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