Letteratura
Serale di Cles
Settembre ha l’odore dei pini, verso sera salendo dal paese per vie solitarie – già da piccolo non sopportavo il vociare delle sale affollate, il parlottare vano delle persone sedute nei caffè all’aperto a guardare passare la gente e sorseggiare vino bianco.
Come tirare con la fionda verso le cime mai raggiunte dal sasso sono i miei pensieri consonanti col silenzio intorno miranti troppo in alto per poter concretizzarsi in azioni riuscite. Forse ho sempre saputo solo progettare e iniziare, e anche per questo ho amato settembre, mentre con l’ottobre inoltrato si cede all’abitudine e al peso della routine.
Stasera ho girato per la strada che dal paese sale verso montagna, sentendo il mio respiro farsi via via più faticoso a misura che la strada saliva e intanto la sera dolce cadeva e con essa il fresco che veniva giù dai boschi alla valle ampia. I trattori alacri nelle vie dei pomari preparano i cesti di plastica dura per la raccolta che presto inizierà, bloccando la valle per due settimane, rendendola chiassosa e industre prima che con novembre inizi il grande silenzio.
Non è un caso che io sia venuto quassù a questo paese, scappando dalla olim palus natale, ma anche là, tra i campi che vanno verso il mare ho sempre amato camminare di sera, cercando raccoglimento e quiete.
Ultimamente, come ricordato, mi piace meditare ascoltando audiolibri o brani di ispirazione.
Oggi ho riascoltato questo racconto di Beppe Fenoglio, letto quasi liturgicamente da Giovanni Lindo Ferretti. Ne metto qui il link, ma di seguito lo riporto in extenso.
Pensato che scrivere così è dono, ma anche fatica, e molte sigarette fumate. Forse, ma non solo, da quando ho smesso non riesco più a scrivere, se non brevi notazioni in questo semidiario pubblico. Si scrive sempre per qualcuno, fosse pure l’abditum mentis, la stanza segreta che vorrà leggere noi stessi. Si scrive per ritrovare il ritmo dell’infanzia, per riprendere in mano la mano del padre che ti aiuta ad attraversare la strada. Ad andare dall’altra parte. A superare il gorgo.
Il Gorgo
Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo. In quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la guerra d’Abissinia.
Quando nostra sorella penultima si ammala. Mandammo per il medico di Niella e alla seconda visita disse che non ce ne capiva niente: chiamammo il medico di Murazzano ed anche lui non le conosceva il male; venne quello di Feisoglio e tutt’e tre dissero che la malattia era al di sopra della loro scienza.
Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il Signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo più grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella.
Come se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio, dal quale non ricevevamo più posta. Tutte le mattine correvo in canonica a farmi dire dal parroco cosa c’era sulla prima pagina del giornale, e tornavo a casa a raccontare che erano in corso coi mori le più grandi battaglie. Cominciammo a recitare il rosario anche per lui, tutte le sere, con la testa tra le mani.
Uno di quei giorni, nostro padre si leva da tavola e dice con la sua voce ordinaria: – Scendo fino al Belbo, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia.
Non so come, ma io capii a volo che andava a finirsi nell’acqua, e mi atterrì, guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione: nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo come se fosse il primo dei suoi figli.
Eppure non diedi l’allarme, come se sapessi che lo avrei salvato solo se facessi tutto da me.
Gli uscii dietro che lui, pigliato il forcone, cominciava a scender dall’aia. Mi misi per il suo sentiero, ma mi staccava a solo camminare, e così dovetti buttarmi a una mezza corsa. Mi sentì, mi riconobbe dal peso del passo, ma non si voltò e mi disse di tornarmene a casa, con una voce rauca ma di scarso comando. Non gli ubbidii. Allora, venti passi più sotto, mi ripetè di tornarmene su, ma stavolta con la voce che metteva coi miei fratelli più grandi, quando si azzardavano a contraddirlo in qualcosa.
Mi spaventò, ma non mi fermai. Lui si lasciò raggiungere e quando mi sentì al suo fianco con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio dietro che mi sbattè tre passi su.
Mi rialzai e di nuovo dietro. Ma adesso ero più sicuro che ce l’avrei fatta ad impedirglielo, e mi venne da urlare verso casa, ma ne eravamo già troppo lontani. Avessi visto un uomo lì intorno, mi sarei lasciato andare a pregarlo: – Voi, per carità, parlate a mio padre. Ditegli qualcosa, – ma non vedevo una testa d’uomo, in tutta la conca.
Eravamo quasi in piano, dove si sentiva già chiara l’acqua di Belbo correre tra le canne. A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò a mostrarmelo come si fa con le bestie feroci. Non posso dire che faccia avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto, e soprattutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia, per la vergogna di vederlo come nudo.
Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lì, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle d’un serpente. Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il petto per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe voltate tutte, tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da una festa con una sbronza fina.
Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo.
Beppe Fenoglio
Devi fare login per commentare
Accedi