Letteratura

Sconfiggere l’ignoranza, La Chimera illuminista di Vassalli

27 Luglio 2015

Si è spento domenica per una malattia fulminante Sebastiano Vassalli, scrittore settantatreenne, candidato al Nobel e al prossimo premio Campiello alla carriera. I funerali si svolgeranno in forma civile nella sua Novara, città d’adozione, mercoledì pomeriggio, a cura del Centro Novarese di Studi Letterari. Vassalli era conosciuto in tutto il mondo per il romanzo storico “La Chimera” (Einaudi, Torino 1990), ambientato in un villaggio padano all’inizio del Seicento, durante la dominazione spagnola, dove una giovane donna di nome Antonia Spagnolini, viene accusata di essere una strega. Trovatella e adottata da una famiglia contadina di Zardino, Antonia cresce forte e bella, guadagnandosi, suo malgrado, le invidie delle comari del paese, divenendo vittima di crudeli pettegolezzi.

“La Chimera” è il “testamento” di Vassalli contro l’ignoranza, contro il pregiudizio, e la discriminazione del diverso. Perchè diverso è un altro modo per dire noi, e la facilità con la quale ottusamente si cerca ancora oggi un capro espiatorio, che non risponda alla regola e convenzione comune, per dare una risposta collettiva a ciò che non funziona, spesso segna il “destino” delle vite altrui. Antonia era una figlia di nessuno, ed è cresciuta bella, affascinante, ribelle, e innocente quanto basta per ritenersi libera, ma non abbastanza da non vedersi condannata dal peggiore dei mali, l’ignoranza.

Un brano de “La Chimera” che rappresenta un passaggio importante del romanzo perché mette in evidenza il tema dell’ignoranza e del pregiudizio:

Sul finire di quello stesso inverno, nel villaggio di Zardino incominciarono anche a manifestarsi alcuni fatti prodigiosi, o strani, o semplicemente curiosi, che però tutti denotavano in modo inequivocabile – così, almeno, dissero le persone esperte – l’esistenza in paese di una strega. Animali che improvvisamente s’ammalavano di mali misteriosi, e stramazzavano a terra; bambine e donne che dalla sera alla mattina si ritrovavano senza più voce; segni indecifrabili che apparivano tracciati nella neve in alcuni punti dove questa s’era conservata intatta, senza impronte umane e senza tracce d’animali attorno: lettere dell’alfabeto scritte rovesciate, messe lì a formare parole misteriose, per chissà quale scopo… Queste cose, ed altre ancora di cui poi si fece cenno nel corso del processo, vennero subito collegate dalle comari con il gran parlare che s’era fatto nelle stalle, in quell’inverno appena trascorso, degli artifici diabolici e stregheschi con cui Antonia accalappiava i suoi morosi; e non furono soltanto le comari a preoccuparsene, ma anche i loro uomini. Si domandarono, in molti: «Come abbiamo potuto non pensarci prima? Avevamo una strega tra di noi, e nemmeno ce ne accorgevamo!» Le parole, gli atti e tutti i movimenti di Antonia cominciarono ad essere seguiti con grandissima attenzione, e interpretati alla luce di ciò che succedeva in seguito, per esempio: Antonia entrava per fare qualcosa in una casa e poi nei giorni successivi in quella stessa casa s’ammalava un bambino, oppure improvvisamente moriva il cane, o un vitello nasceva deforme; ecco il vero motivo – si diceva – per cui lei era stata lì! Le concatenazioni dei fatti, le coincidenze si sprecavano: Antonia salutava una ragazza e il giorno dopo quella cascava dal fienile; Antonia passava per una certa strada, e vi si trovavano dei pezzettini di legno sparsi in un certo modo, dei segni a terra, a dir poco misteriosi… E non basta. Se lei guardava per aria poi pioveva, o addirittura nevicava; se guardava per terra s’asciugava il pozzo, o sprofondava la cantina; se indicava un punto verso l’orizzonte si poteva stare certi che laggiù, o comunque in quella direzione, prima o poi sarebbe scoppiato un incendio, o la fiera bestia avrebbe aggredito un contadino; se sospirava, erano dolori per tutti! Attorno a Antonia si fece il vuoto: per le strade, nei cortili, ovunque lei andasse la gente scappava, trascinando anche gli animali, se faceva in tempo a portarli con sé; se lei chiamava un’amica, o una comare che era in casa, da dentro casa si sbarravano le finestre, le porte, ogni pertugio, per non farla entrare e per non far entrare nemmeno la sua voce! Chi la incontrava per strada all’improvviso, se non poteva più scappare né tornare indietro, si faceva il segno della croce e passava in fretta, girando il viso da un’altra parte: e chissà Antonia come reagiva, se reagiva, a quell’improvvisa follia dei suoi compaesani! Chissà quali pensieri le passavano per la mente, vedendosi trattare così da tutti, anche da persone che in passato aveva considerato amiche! Nessun processo per maleficio, che si sappia, s’occupò mai dei sentimenti della strega; che, anzi, veniva sempre considerata lietissima del gran male fatto o da farsi: la felicità in persona! Tanto più lieta, quanto più tutti la trattavano male; perché quello era il segno certo e inconfondibile che i suoi malefici attecchivano. (Ma se anche avesse sofferto, tanto meglio! «Prima schiatta e meglio è», ragionava la gente). Per difendersi dalla strega, e per liberarsi di lei, gli abitanti di Zardino si rivolsero al prete. Furono alcuni uomini a prendere l’iniziativa, dopo una riunione dei fratelli cristiani: così – dissero – non si poteva andare avanti! Bisognava fare qualcosa, perché in paese c’era preoccupazione e non erano solo le bigotte ad essere impaurite, ma anche i massari e i contadini e la gente comune: quella stessa gente che andava in chiesa meno che poteva, e lesinava sulle decime, e non amava don Teresio; ma le stregonerie sono una cosa seria, e tutti le temono! «Se incominciano ad ammalarsi le bestie, o se ci marciscono le semine, che facciamo?» Giusto ieri – dicevano gli uomini della confraternita – la tal mucca del tal contadino non ha fatto latte; molti alberi da frutta si sono seccati durante l’inverno, non si sa perché; il tal bambino ha la febbre alta: che succede? Si appellavano al prete. Provvedesse lui, che ne aveva il dovere e la competenza specifica, a ridurre la strega in condizioni di non nuocere, con esorcismi o con altri mezzi ritenuti idonei; o denunciandola a Novara al Sant’Uffizio: perché – dicevano – la faccenda era seria, molto seria, e loro, i fratelli cristiani, ne avevano le prove. Loro potevano testimoniare che la ragazza andava ai sabba e che era stata vista proprio mentre ci andava, e da tutti i membri della confraternita! «L’estate scorsa, al tempo dei risaroli, – riferirono, – l’abbiamo incontrata di notte, non una sola volta ma più volte, dalle parti del dosso dell’albera, e allora però non davamo importanza a quegli incontri perché pensavamo che avesse un moroso». Invece Antonia il moroso non l’aveva e soltanto in seguito, cioè durante l’inverno appena trascorso, s’era capito cosa andasse a farci, su quel dosso: dove, peraltro, si sapeva già da tempo che si riunivano le streghe! Ma s’era capito tardi, quando ormai in paese erano incominciate a succedere cose strane: mucche che s’ammalavano, famiglie intere che perdevano la voce, ragazzi che cascavano dai fienili… «Don Teresio, aiutateci! – gli dissero. – Dateci almeno un consiglio. Che dobbiamo fare?» Lui si tenne sulle sue per molti giorni, senza sbilanciarsi in alcun modo: né a favore di Antonia né contro Antonia. «Bisogna pregare, pregare molto, – ripeteva. – Se ci fosse più religione, qui a Zardino, certi fatti che denotano la presenza del Diavolo tra di noi, certamente non accadrebbero!» Ne parlò anche durante la messa, una domenica: trattando il tema del peccato e della pena, che viene sempre da Dio. Citò la Bibbia, il Libro dei Maccabei: «In verità io ti dico: tu, ora, per volontà di Dio, avrai il giusto castigo della tua superbia!» E poi parlò delle Sette Piaghe d’Egitto, che colpirono il popolo d’Israele ai tempi di Faraone; e alluse anche ai due flagelli di Zardino, cioè ad Antonia e alla fiera bestia, ma senza nominare né l’una, né l’altra. Soltanto, si limitò a dire di quei due flagelli che erano giusti, prevedibili e da lui previsti. «Certamente, – gridò puntando l’indice contro i fedeli, – Dio non permetterebbe che tali presenze diaboliche si manifestassero in questi boschi, e che tali eventi si compissero in questo villaggio, se nelle vostre aie e nelle vostre stalle non si fossero tenuti, per anni!, discorsi sacrileghi contro di lui, contro il suo servo che vi sta parlando e contro i suoi diritti, d’avere le decime e le regalie dei suoi fedeli. Se si facessero più devozioni e più elemosine, certe cose non accadrebbero!» Passarono così altre due settimane, durante le quali un bambino si scottò con l’acqua bollente, un famiglio si ferì malamente cadendo sulla falce e successero altri fatti spiacevoli, a Zardino e dintorni, senza che nessuno più si azzardasse a parlare della strega con il prete, né che lui ne facesse parola con chicchessia: dopo la predica delle Piaghe d’Egitto la faccenda era rimasta così, come sospesa nell’aria, e anche tra la gente del paese se ne parlava meno; finché un giorno d’aprile, un lunedì, don Teresio si mise a tracolla la sua bisaccia delle grandi occasioni e andò a Novara, a denunciare Antonia al Sant’Uffizio, anzi personalmente all’inquisitore Manini. (S. Vassalli, La chimera, Einaudi, Torino 1990)

 

(Foto di copertina: Credits Olycom)

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