Costume

“Se questo è un uomo” a teatro: Primo Levi ritorna ai giovani

7 Dicembre 2021

 

Se questo è un uomo, l’opera che ha scolpito il nome di Primo Levi tra i testimoni dei lager nazisti, rivive in questi giorni a teatro dopo la lunga chiusura, per la regia e l’interpretazione di Valter Malosti.

Rivive l’opera, che a fasi alterne riaffiora nelle mareggiate della pubblicistica che ricordano quasi febbrilmente uomini ed eventi. E rivive l’autore Primo Levi, a cui il regista riesce a dare corpo e voce attenuando le abilità dell’attore, appianando la vocalità, restando quasi immobile sulla scena, con voce ferma, mai esasperata, con la misura e l’asciuttezza che informano l’intero libro di Levi.

Il titolo in oggetto è uno dei più noti nella storia letteraria del ‘900; racconta la prigionia di Levi per oltre un anno nel lager di Auschwitz annesso alla fabbrica di Buna – Mowitz. Non senza ironia, nella prefazione, lo stesso autore scrive: “Per mia fortuna sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi… “

Queste prime righe danno già il tenore del racconto. Amaro, essenziale, ragionevolmente cinico. Per contrasto, anche vivace, non vittimistico, non patetico, non moralistico.

Ho visto il lavoro all’Arena del Sole di Bologna, in una platea colma di giovani smaniosi all’ingresso e ripiegati l’uno all’altro alla fine, sazi e ammutoliti. Un racconto scenico inscritto in un’articolata installazione visiva e sonora, che risuona e lampeggia per oltre un’ora attorno alle parole, condensando i capitoli del libro, esaltandone gli effetti, uscendo poi dalle ultime pagine, fino al rientro a Torino del protagonista, salvo e irrimediabilmente condannato.

Così un libro prende corpo a teatro mi sono detto; un attore può contenere l’impeto di un grande spirito, farsi possedere da quell’anima tumultuosa, dal suo dolore che senza strepito parla – a più voci, a più registri letterari –  lungo tutto il diario da Auschwitz, come parlasse del peggior “vizio” umano, inestirpabile, sempre in agguato.

Levi diceva di soffrire di una memoria patologica, di una coazione a raccontare, a comunicare al meglio anche il male estremo, le sue oscure radici. Avrebbe apprezzato le intenzioni di questo lavoro teatrale che omaggia innanzitutto il testo, lo rende acustico, lo materializza; un lavoro che esalta l’estro letterario e sfida oltre all’indifferenza frenetica, anche l’oblio digitale della contemporaneità, le sue retoriche affaticate, e con un uomo solo sul palco catalizza l’attenzione di così tanti studenti, avvicinandoli a una materia fangosa e terrea, mai conclusa: il lager.

Pochi giorni prima di andare a teatro, avevo ripreso in mano il libro, un’edizione supplemento di Famiglia Cristiana del 1997, forse acquisto remoto di un mercatino. Talvolta i libri si nascondono per anni alla vista e tacciono, non escludo che questo non l’aprissi da vent’anni. Non lo ricordavo, ma ho dovuto riconoscere lo stile netto, acuminato ma anche poetico di Levi; la forza letteraria che in tante pagine sovrasta e quasi adombra la bestialità del lager. Perché questo fa uno scrittore se è tale, raschia la superficie della realtà, la ricrea, la supera. Letti i primi capitoli mi sono immerso nel racconto, impressionante per l’abilità naturale di unire fantasia di linguaggio ad essenzialità. Tanti frammenti dall’orrore del lager, alcuni analitici, altri poetici, filosofici, grotteschi, l’autore spinto dall’ossessione del comprendere per sopravvivere.

In Malosti l’io narrante che nelle pagine centrali diventa un noi-corpo plurale degli internati o pluralità di un “Io” rifratto e razionato per sopravvivere, resta fedele alla pagina; più che recitata interpretata vocalmente, enunciata, punteggiata dal clangore di suoni duri, metallici, che inchiodano le parole “uomo”, “fame”, “vita” al fondo del palco; pagine accese dalle rette brucianti delle luci, che tagliano, sospendono, isolano e segnano il movimento. Le sole comparse sul palco di grigi cangianti – una casa stilizzata da due pareti grigie, così come il fondo sconnesso e una parete che sale da questo come una rampa scura – sono due ombre, un uomo e una donna ridotti a sagome striscianti, esangui. L’essenzialità, un altro segno del libro ben tradotto dal regista.

Nel buio della platea ogni tanto si levava un’esclamazione che sfuggiva a un ragazzo, a una ragazza, in uno dei momenti ad impatto scenico più forte, e ce ne sono stati molti grazie alle installazioni visive, al guizzo violento dei suoni, agli acuti vibranti dei madrigali sui brani poetici di Levi su disegni e videoproiezioni giganti, mostruosamente evocative; erano quelle, esclamazioni vivaci e scomposte, forse impertinenti, ma pur sempre segni di viva reazione, di risposta emotiva dal pubblico, autentica e liberatoria davanti alla forza spiazzante e autorevole di un lavoro teatrale. Chi avrebbe potuto reggere passivamente (non leggendolo da sé) un Primo Levi didascalico, solo letterario, storico, filosofico, o anche tutto questo assieme solo amplificato e letto, senza l’apporto della teatralità contemporanea e l’ingegno dei suoi tecnici-artisti? Il pubblico dell’Arena ha corrisposto molto bene al lavoro intenso degli autori, seguendo sulla scena l’uomo in pastrano, circondato da suoni, voci soffuse, apparizioni, parole proiettate sulla sua schiena, e ancora, dal risuonare di un coro da teatro antico. Tutto questo movimento attorno alla tragedia subumana e oltreumana che Levi ha scritto e testimoniato, non ha – come invece affermava Ennio Flaiano scrivendo del suo “spettatore addormentato” – rappresentato la riduzione deteriore di un capolavoro, ma ne ha permesso la condivisione da parte di un pubblico vasto, variamente composto da giovani; è a loro che negli ultimi anni prima dell’oscuro suicidio, l’autore ha dedicato la sua indefessa testimonianza. E a quei ragazzi oggi il teatro lo riporta.

 

A casa, dopo, mi sono spinto a rileggere l’opera interamente ancora una volta, trovandola sempre differente, quasi ironicamente divisa tra la ragione dell’analisi mnemonica e l’irragionevolezza dei fatti, un’ironia spaventata, ma lucida; una scrittura complessa sia in senso letterario che stilistico, dotata di una forza e una tenacia che solo la ragione e le scienze umane, nelle quali l’autore confidava, potrebbero spiegare a un ragazzo di oggi.

Negli ultimi anni di vita, Levi dichiarò spesso il suo incessante bisogno di raccontare, di liberarsi di continuo dei fantasmi dei ricordi, e oltre a rilasciare centinaia di interviste, volle incontrare numerose scolaresche, studenti di storia o di chimica, per rispondere alle loro domande insinuanti, sfamare la loro morbosità su quell’orrore che pure scritto andava anche impersonato, testimoniato.

 

Se il teatro, come scrisse ancora Flaiano a proposito di Silvio d’Amico, è soprattutto “un fenomeno della società”, allora questo lavoro di Valter Malosti assume anche un significato sociale, diramandosi in diversi incontri pubblici nelle città del tour in ripartenza da Bologna, rivolti soprattutto agli studenti. Nei teatri, e nelle scuole.

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